«Come diceva Fellini, la distanza è più vicina alla dimensione del sogno»

Rimini

 

Uscirà venerdì “Delone” il terzo album (senza considerare la colonna sonora del film “Zoran”) del gruppo romagnolo Sacri Cuori, una delle band italiane con la migliore credibilità in tutto il mondo. Antonio Gramentieri, Diego Sapignoli e gli altri Sacri Cuori suonano e collaborano con i più grandi nomi della scena alternative folk mondiale da anni, e sono tra i più ricercati musicisti di supporto dall’Australia agli Usa, passando per l’Europa. Ci parla del nuovo lavoro il chitarrista Antonio Gramentieri: «È un disco che prosegue il nostro percorso partito da lontano, dall’estero, con “Douglas and dawn”, verso la riscoperta della tradizione italiana con “Rosario”, completata con “Delone”, che è un disco italiano in tutto e per tutto. Siamo stati molto colpiti da un’intervista di Federico Fellini che abbiamo letto: il maestro diceva che avrebbe potuto tranquillamente girare “Amarcord” a Rimini, e sarebbe stato anche più facile ed economico, invece ha voluto ricostruire Rimini a Cinecittà perché la distanza è più vicina alla dimensione del sogno. Allo stesso modo “Delone” è la nostra ricostruzione di un’Italia ideale, attraverso i racconti dei moltissimi italiani e stranieri innamorati dell’Italia, che abbiamo incontrato nel mondo. È un’Italia a metà tra il sogno e il ricordo, molto poetica». Negli album precedenti c’erano solo un paio di pezzi cantati, mentre qui quasi tutti.

«C’è la voce della cantante australiana, di origini italiane, Carla Lippis, che canta anche il singolo, una cantante francese, e il nostro amico Howe Gelb».

Sembra che siate più pop, in particolare col singolo.

«Più che pop direi più fruibili, proseguendo un processo di limatura della musica colta per intenditori, che era già avviato. In realtà la struttura dei pezzi è piuttosto complessa, ma si presta anche a un livello di lettura più immediato. Abbiamo poi messo nell’album due o tre “cavalli di Troia”, tra cui il singolo, che possano aprirci le porte del mainstream».

Sembra che si tratti di un disco creato per farsi ascoltare molto all’estero.

«Non solamente, ma il fatto che il disco esca per la Glitterbeat va in questa direzione. Si tratta di un’etichetta tedesca che di solito pubblica musica africana di taglio contemporaneo, ma recentemente ha fatto un’operazione di successo con un gruppo messicano; si è così orientata verso la musica latina e ci ha contattato».

Il suono del disco è molto “vintage”, influenzato dalla musica di Ennio Morricone, Nino Rota, Piero Umiliani, Riz Ortolani, Piero Piccioni, Armando Trovajoli e tutti i grandi autori di colonne sonore italiane degli anni ’60: non si rischia l’effetto nostalgia?

«Si rischia, ma abbiamo cercato di evitarlo, facendo sentire che la grande tradizione italiana di quegli autori, che tutto il mondo ricorda e ammira, si può attualizzare».

Non mancano, in veste di ospiti, i grandi nomi internazionali con cui lavorate abitualmente.

«È stato strano avere il batterista dei Sonic Youth, Steve Shelley, che di solito suona cose molto diverse: l’abbiamo incontrato a un festival in Montenegro, e quando ha ascoltato questo suono, ha voluto esserci. Poi ci sono Evan Lurie dei Lounge Lizards, Howe Gelb dei Giant Sand e Marc Ribot».

Che importanza ha oggigiorno la pubblicazione di un disco nella vita di una band?

«Se qualcuno ascolta la mia musica, che la compri o no, non mi cambia molto, perché oggi nessuno più diventa ricco con le vendite dei dischi, però comprare un disco sta diventando un gesto politico, un riconoscimento verso chi la musica la fa e la distribuisce. Il fatto che sia tutto gratis svaluta il lavoro di tutti, per cui se qualcuno che legge quest’intervista decide di comprare un disco, fa una cosa bella».

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