Bellezza, grandi speranze cocenti delusioni: è l'Italia dal Risorgimento alla Grande guerra

Rimini

 

RAVENNA. Grandi speranze (Great Expectations) si intitolava un celebre romanzo di Charles Dickens, anno 1861. E proprio di grandi speranze parla la mostra Il Bel Paese aperta fino al 14 giugno al Mar. Speranze esemplificate da quella ragazza distesa sulla roccia di Sorrento che guarda verso il mare, il quadro di Filippo Palizzi (1871) simbolo dell’intera esposizione.

Che cosa accadde all’Italia tra il Risorgimento e la Grande guerra? Dove andarono a finire quei sogni capaci di capovolgere le sorti di una nazione divisa? Come si arrivò al grand guignol del conflitto mondiale?

Forse la mostra non risponde a tutte queste domande, ma se le pone. Riuscendo a raccontare, in sette sezioni allestite sui tre piani della Loggetta Lombardesca, il paesaggio, la cultura e la società italiana lungo 60 anni, dai Macchiaioli alle avanguardie del Futurismo, con oltre 100 opere diverse per stile, qualità e vocazione, ma unite da un talora inconsapevole afflato patriottico.

Certo più evidente quando Silvestro Lega ritrae i Bersaglieri che conducono prigionieri austriaci (1861), o nella Presa di Porta Pia di Michele Cammarano, ma altrettanto efficace nella sezione dedicata a vedute e paesaggi, una sorta di Grand tour nelle bellezze architettoniche e naturali di una nazione nascente. Qua, tra le tante, si segnalano le tele di Telemaco Signorini come La piazza di Settignano all’ombra (1881-89) o il Sobborgo di Porta Adriana a Ravenna (1875), il grande olio La pineta di Ravenna di Luigi Bertelli (1890) o i due pastelli del 1897 di Gaetano Previati, Resegone e San Martino.

Nei paesaggi irrompono quindi le figure, soprattutto femminili, a documentare riti e costumi di una società che cambia. Notevole l’Invito alla danza (1870) di Mosè Bianchi ma anche La mia rossa di Ettore Tito (1888).

La mostra – meritoriamente – dedica poi un’ampia sezione alla fotografia, in cui compare anche un cospicuo nucleo di immagini del fotografo e cineasta Luca Comerio. Si rituffa quindi nel privato degli album di famiglia: è qui che troviamo l’intensa
Orante del 1869 di Francesco Hayez, la Gabbrigiana in piedi di Lega (1888) o la cera di Medardo Rosso Birichino (1882-83).

Tra le curiosità: la piccola Signora che cuce di Giovanni Boldini è stata donata alla Fondazione Cariparma dal baritono Renato Bruson.

Ecco ancora Signorini (La via del fuoco, 1881) e Giovanni Segantini (Interno di stalla) a raccontare gli ultimi momenti di vita rurale. Poi, zang tumb tumb, tutto cambia, gli spiriti si animano, c’è ansia di lotta, e alla quotidianità agreste si sostituisce l’esaltazione della macchina e dell’uomo: Balla, Depero, Carrà, Sironi, dinamismo e granate. Dalle grandi speranze alla grande illusione. La mostra, però, mette un piede anche oltre: così in chiusura troviamo l’enigmatico De Chirico accanto a Felice Casorati con il suo Cesare Lionello (1911), ritratto di un bambino – nelle parole del curatore Claudio Spadoni – «figura anticipatrice di una nuova infanzia dell’Italia». Sembra quasi un auspicio rivolto all’oggi. Coraggio, pare dirci l’arte, non tutto è perduto.

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