Pollini: «Altro che dialetto morto!È uno strumento attualissimo»

CESENA. È di pochi giorni fa la presentazione alla Biblioteca Malatestiana di Cesena del volume “Poeti romagnoli d’oggi e Giovanni Boccaccio”, a cura di Franco Pollini (edizioni Il Ponte vecchio).

Il libro, pubblicato per celebrare il decimo anno di attività del circolo culturale “Giordano Pollini”, prende spunto dal 700° anniversario della nascita di Giovanni Boccaccio e riunisce i contributi di 40 rappresentativi poeti romagnoli, invitati a lasciarsi ispirare liberamente dalla figura e dalle opere del grande certaldese.

Il libro presentato alla Malatestiana è il quinto della serie che l’associazione, a partire dal 2005, ha realizzato mettendo a confronto artisti romagnoli e figure del passato: ora Boccaccio, ma anche Dante, Pascoli, Baudelaire, Fellini.

Quale criterio guida la scelta dei “grandi” a cui accostare i poeti della contemporaneità?

«Intanto il riferimento e il legame che questi “pilastri” del passato hanno avuto con la Romagna – risponde il curatore del volume, Franco Pollini – : dove hanno vissuto, di cui hanno scritto o che hanno almeno citato nella loro opera. E poi c’è anche la nostra volontà di fare riferimento a opere mirabili, caposaldo della storia della cultura come il “Decameron”, la “Commedia” o le produzioni degli altri artisti».

Gli artisti romagnoli da voi invitati rispondono quindi a questa sollecitazione.

«Sì, ed è un’occasione per loro per confrontarsi con chi li ha preceduti, ma è anche un’opportunità per il pubblico, che vede confluire nello stesso volume le parole di tanti artisti: questa volta, ben quaranta».

Il titolo del volume parla di “poeti romagnoli”: parliamo di poesia in dialetto, o in lingua?

«C’è chi scrive in italiano, chi in dialetto e chi usa tutti e due. Ma la distinzione in fondo è poco importante. I poeti scelgono di usare la propria lingua letteraria: quella grazie alla quale riescono a costruire al meglio la visione poetica che appartiene loro».

In questo periodo corre quasi l’obbligo di chiedere il punto di vista di chi si interessa di “poesia romagnola”, sulla querelle relativa all’abrogazione della legge sulla tutela del dialetto da parte della Regione Emilia-Romagna.

«Il nostro interesse va alla poesia ma anche alle radici e alle tradizioni culturali della lingua poetica: per questo, condivido le critiche di Bellosi e di altri. Questa cancellazione, mi sembra, è stata determinata più da mancanza di conoscenza o indifferenza da parte della Regione che da un progetto politico: per questo, mi auguro che ci sia spazio per un ripensamento, o addirittura per una nuova legge di tutela della “lingua madre”».

Ma nella realtà quotidiana sembra che la Romagna di fatto stia perdendo l’uso del suo dialetto.

«Nel volume che abbiamo presentato pochi giorni fa è compresa anche una bellissima poesia di Annalisa Teodorani, “I discorsi della gente”, che sottolinea come certe cose si possano dire solo in dialetto, come poi diceva anche Raffaello Baldini. Questo è un concetto che ci deve accompagnare sempre, tanto più che anche l’italiano rischia di diventare una lingua marginale in questo mondo globalizzato dall’inglese della tecnologia… E finirà che la stessa battaglia che combattiamo in difesa del dialetto, bisognerà combatterla anche in difesa dell’italiano!»

Viene da chiedersi però cosa possa dare il dialetto, appunto, a un’Italia del terzo millennio, ben lontana da quella di Spallicci o di Stecchetti.

«Non dimentichiamo che in dialetto hanno scritto poeti grandissimi: da Tonino Guerra e lo stesso Baldini, a tanti altri, anche contemporanei. Se lei poi pensa ai giovani, per i quali il dialetto non è più una “lingua madre”, è proprio lì invece che possono ritrovare radici e tradizioni: appunto perché il mondo è diventato così grande e si rischia di essere sradicati, apolidi culturali! Senza dimenticare poi che conoscere il dialetto, riflettere su esso è un modo per confrontarsi con la storia che ci appartiene e con le generazioni precedenti, tra le quali tanti ancora, e per fortuna, lo parlano».

Quindi il dialetto è comunque anche uno “strumento” per l’attualità.

«Certo: ci si capisce meglio anche fra persone di paesi diversi se si comunica con una lingua identitaria, se si fanno i conti con la profondità della propria lingua, ben diversa dal “gramlot” che è l’inglese della comunicazione e che oggi domina, con tutta la sua superficialità, ma che non ci appartiene. Per questo il dialetto non è solo un bene culturale, da tutelare, ma qualcosa che ci permette di capire meglio noi stessi… e di comunicare meglio con gli altri».

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