Vedova con tre figli: «Io, lasciata sola dopo la tragedia»
Il giorno della tragedia erano andati a fare la spesa al supermercato. Lei incinta e lui che porta le borse. L’incontro con l’assassino, del tutto casuale, avviene davanti allo scaffale dei sottaceti. «Non l’avevo mai visto prima». Che cosa si dissero il marito e il suo carnefice, mezz’ora prima di affrontarsi all’esterno? «Hanno parlato a bassa voce, in albanese, io non capisco la lingua, ma non era una lite». La scena “muta” viene ripresa dalle videocamere della sorveglianza. I due uomini si scambiano poche parole. Poi, ognuno per la sua strada, almeno in apparenza. «Chi è quello? Chiesi. Nimet mi rispose che era il tipo che qualche tempo prima aveva dato una bottigliata in testa a suo fratello “Gimmi”. Lo conosceva appena». Era preoccupato? «No, per niente. Abbiamo continuato a riempire il carrello: l’unica preoccupazione era che il nostro figlio più grande non stava bene e ci eravamo detti che saremmo restati a casa il resto della giornata». All’uscita Paulin è lì che aspetta Nimet e gli dice qualcosa. Questi appoggia gli occhiali e il portafogli sul sedile, poi dal cruscotto estrae una bomboletta spray, innocua e va incontro al connazionale. «Gli ho detto lascia perdere, andiamo», un presentimento, ma non sembrava il preludio di una tragedia.
«In tribunale lui ha chiesto perdono, ma non gli ho creduto, né m’importa della sua sorte. Ringrazio gli avvocati Torquato e Antonio Tristani, il pm Marino Cerioni e i carabinieri di Riccione per il lavoro che hanno svolto. Ma delle sue scuse non me ne faccio niente: non credo temesse davvero le ritorsioni dei fratelli di mio marito, tutte persone civili, lavoratori, e neanche che avesse solo l’intenzione di spaventare Nimet: se vuoi far paura a qualcuno mostri la pistola, al limite spari a una gamba, non so, ma non miri al cuore». Jessica, sola con tre figli, ha dovuto lasciare il lavoro da parrucchiera per seguirli a tempo pieno (aveva un contratto a tempo indeterminato) e nonostante i suoi familiari vivano tutti nel Riminese si è trasferita in provincia di Macerata in una casa di proprietà del compagno di sua madre. «Ce la siamo anche vista brutta con il terremoto, vorrei riavvicinarmi, ma quando sono andata a chiedere un aiuto ho trovato solo porte chiuse: a Montecolombo, a San Clemente, a Misano, a Riccione. Non dico un sussidio, ma almeno un alloggio popolare, un lavoro anche diverso dalla mia professione. Il mio è un appello, ho visto che in casi analoghi al mio c’è stata una certa mobilitazione, specie a Rimini. Io invece sono stata lasciata sola, non ho sentito la solidarietà di nessuno, paradossalmente credo che avrei avuto più mani tese se fossi stata albanese anziché italiana, ma spero ancora che qualcosa di buono, dopo tanto dolore, possa capitare».