Cesena, la moglie ha paura, gli tolgono le armi ma vince il ricorso al Tar

Cesena

CESENA. Il 3 agosto scorso gli fu notificato un decreto con cui il prefetto di Forlì-Cesena sospendeva la validità del libretto di porto d’arma per difesa personale che sarebbe dovuta scadere il 23 marzo 2019, oltre alla relativa licenza annuale. Quel provvedimento spiazzò il suo destinatario, perché fin dal 1974 aveva ottenuto quella autorizzazione per specifiche situazioni di potenziale pericolo per l’incolumità che erano legate legate alla propria attività professionale. E in più di un’occasione non erano mancate esplicite e concrete minacce.

Da lì a poco è arrivata una doccia fredda per il cittadino cesenate. I carabinieri, in divisa e con l’auto di servizio, e perciò in modo molto visibile, lo hanno accompagnato presso la sua abitazione. Una volta lì, si sono fatti consegnare le armi e le portarono poi via, sotto gli occhi di più di una persona. Inclusa la figlia dell’uomo che le deteneva, che è nella delicata età adolescenziale. Insomma, il diretto interessato, che è una persona nota, lo ha vissuto come un brutto colpo alla propria immagine, ed è stato un trauma non solo per lui.

Ricorso e Ministero condannato

Da queste premesse è nato un ricorso, seguito dall’avvocata Beatrice Belli, con studio a Bologna, per chiedere di annullare il decreto con cui il suo assistito era stato privato della possibilità di tenere le armi per difesa personale. Un duello legale che si è concluso in tempi da record per la giustizia italiana, visto che tra la decisione presa in camera di consiglio il 27 febbraio scorso e l’emissione di una sentenza motivata sono passate appena 72 ore.

Il ricorso è stato accettato e questo ha comportato la condanna del Ministero dell’Interno, che si era costituito parte civile: dovrà rifondere le spese di giudizio, liquidate in 2.000 euro, oltre ad accessori che a occhi o croce raddoppieranno quella cifra. Al cittadino è stato dunque riconosciuto il diritto di riavere indietro le armi e l’autorizzazione a detenerle.

I fatti

Alla pronuncia il collegio giudicante presieduto da Giuseppe Di Nunzio è giunto dopo un esame che ha messo in luce il modo incredibile in cui sono avvenuti i fatti. Tutto aveva avuto origine nell’ottobre 2017, quando era iniziata una crisi del rapporto matrimoniale del ricorrente, anche a causa dell’insorgere di problemi di natura psichica nella moglie, che da allora è in cura presso il Centro di Salute Mentale di Cesena. È questo il contesto in cui la donna querelò il marito, nello scorso mese di maggio, rivolgendosi alla stazione. L’accusa faceva riferimento a una serie di comportamenti definiti genericamente persecutori, ma senza segnalare alcun episodio violento, né minacce. Due mesi dopo, la moglie tornò però negli uffici dell’Arma, per aggiungere che aveva paura perché il marito era in possesso di diverse armi. Armi - fu precisato - che erano custodite in un modo impeccabile: si trovavano dentro un armadio blindato posizionato all’interno della camera da letto e chiuso con un lucchetto al fine di impedirvi l’accesso dei familiari. Al tempo stesso, il marito aveva contrattaccato presentando due esposti al Commissariato di polizia nei confronti della consorte, per chiedere di allontanarla dalla casa coniugale.

La sentenza

È’ questo il contesto conflittuale e complesso in cui si è sviluppata la vicenda e i giudici amministrativi, nella loro sentenza, hanno fatto notare che, prima di arrivare al decreto di sospensione del porto d’armi, non fu svolta alcuna analisi della personalità dell’uomo, per valutare se fosse inaffidabile o addirittura pericoloso. Hanno poi aggiunto che nel provvedimento prefettizio non era stato indicata alcuna circostanza tale da destare preoccupazioni. E comunque non c’erano state novità rispetto alla situazione riscontrata nel marzo 2018, quando la stessa Prefettura aveva rilasciato al ricorrente il rinnovo della licenza di porto di pistola per difesa personale. Il tutto per non parlare del fatto che a ventilare rischi è stata una persona con disagi psichici certificati.

Alla luce di tutte queste considerazioni, perché negare il possesso di armi che per 44 anni erano state tenute senza alcun problema? Perciò, dopo avere sottolineato che una crisi familiare non accompagnata da pericoli che siano tangibili e non solo ipotetici non è sufficiente per revocare l’autorizzazione di polizia in discussione in questo caso, i giudici di Bologna hanno dato ragione all’uomo che ha contestato la decisione del prefetto.

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