Dai bambini il coraggio di ribellarsi al populismo

Rimini

A chi non ha ancora un’opinione sullo Ius Soli, invece di leggere saggi o articoli, darei un semplice consiglio: entrate in un asilo. Una qualunque scuola materna, ravennate o italiana. È lì che ogni mattina, accompagnando mia figlia in quei corridoi pieni di bimbi, mi chiedo: ma poi è davvero così difficile convivere tutti assieme? Guardo i nomi dei suoi compagni di classe e i loro volti sugli armadietti: Vittoria, Amin, Brajan, Hiba, Rachid, Davide. Sembra la rosa dell'Inter: cinque italiani, un oriundo, venti stranieri. Eppure vanno d'accordo.
Anzi, non vanno sempre d'accordo, ma si rispettano tutti. Un giorno giocano assieme, un giorno no. Le loro differenze sono la loro ricchezza. Ognuno mangia quello che vuole, festeggia quello che vuole e gioca come gli pare. E grazie a degli insegnanti straordinari imparano cose diverse rispettando le loro regole.
Nella sezione di mia figlia si parlano sette otto lingue: italiano, inglese, spagnolo, arabo, albanese, russo, rumeno, serbo croato. Negli anni ’80 mandare un figlio in una scuola del genere sarebbe stato un privilegio da figli di diplomatici. Ora, per certe mamme, sembra quasi una condanna.
Siamo figli delle nostre paure e le nostre paure cresceranno i nostri figli nell'intolleranza. E come i francesi fanno già oggi, un giorno ci chiederemo: dove abbiamo sbagliato? Con l'aggravante che noi, quello che sono le banlieu, lo sapevamo già. E conoscevamo anche le brevi biografie di quei ventenni semianalfabeti e frustrati, rigettati dalla società e pronti a bussare all'ufficio di collocamento dell'Isis. Eppure, nonostante tutto, la pochezza generale di una intera classe politica sembra voler sacrificare sull'altare del populismo la legge sullo Ius soli, il tutto per non rischiare un 2% in meno alle prossime elezioni. Tutti, da sinistra a destra, impauriti dagli applausi facili che i giornalisti da pianobar dell'odio raccolgono in prima serata, suonando a richiesta i tormentoni del “non sono razzista ma”.
Scriveva Massimo Recalcati poco fa su Repubblica che una legge che si basa sulla differenza di sangue è una legge semplicemente razzista. E aggiungo che prima o poi dovremmo anche ammettere che o lo siamo già o lo stiamo diventando.
Agli onorevoli che stanno affossando quella norma darei solo un consiglio: andateci anche voi negli asili italiani. Basta un giorno. E capirete che i bambini quelle differenze e quelle paure ancora non le sentono. Semplicemente perché non le vedono. Ed è quello che potrebbero insegnarci.
Una volta nella classe di mia figlia hanno fatto il disegno dei loro volti e li hanno appesi a un muro, la maestra sotto a ogni ritratto aveva scritto il loro nome, in rosso. Tanti colori e tanti nomi. Neri, bianchi, biondi, mori, occhi azzurri, occhi verdi. Tutti diversi e disegnati col tratto che può avere un bimbo di 5 anni. Mia figlia non sa leggere, ma mi indicava tutti i suoi amici con un dito. Quella è Giorgia, quella è Hiba, quella è Divine. Non ne sbagliava uno.
“Ma come li riconosci?” Le ho chiesto.
Pensavo, da adulto, che mi rispondesse: dal colore della pelle. Ma lei mi ha sorpreso: “Dal sorriso papà. Tutti i miei amici sono diversi”.
Diversi ma incredibilmente uguali.

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