Lascio il Pd ma voto Orlando

Rimini

Lascio il Pd che non solo ho contribuito a fondare ma che, in qualche modo, ho messo alla prova nella nostra città dando vita ad una Giunta “ulivista” nel 1992, due anni prima dell’Ulivo. E non fu una prova negativa se quell’alleanza divenne poi una maggioranza organica e consentì di portare l’esperienza di centro sinistra fino ad oggi nel governo della città.
Ora però qualcosa si è spezzato. Non mi riferisco tanto al rifiuto costante di Renzi di ascoltare le ragioni della sinistra interna, fino al dileggio con cui è stata trattata la storia dei due grandi partiti di massa (il Pds e la Dc). Non è questo che m’interessa anche perché lo attribuisco, non alla dimensione razionale di Renzi, ma alla sua dimensione psicologica, all’invasivo ego che lo domina e lo rende incapace di misurarsi con visioni del mondo che non siano le sue. Questo per un partito plurale è un bel problema! Semmai ciò depone a sfavore di chi gli è vicino e non ha il coraggio o la forza di imporgli la capacità di ascolto e di analisi che ogni vero leader deve avere.
Non è dunque per questo che ho deciso di lasciare il Pd. Le ragioni sono molto più profonde e di queste ragioni rivendico la nobiltà. Se non altro perché ragioni più o meno simili attraversano buona parte della sinistra europea, in Francia come in Spagna, in Gran Bretagna come in Germania. C’è da difendere la democrazia dal potere finanziario, c’è da scegliere fra “capitalismo compassionevole” (gli 80 euro, i 500 euro ai ragazzi) e interventi strutturali sull’origine delle diseguaglianze. Non ho mai sentito Renzi ragionare su queste cose ma è esattamente da qui che nasce lo scontro interno al Pd, altro che conflitto sulle poltrone!
Dobbiamo decidere se siamo subalterni al turbocapitalismo o siamo portatori di proposte di cambiamento.
La vera sfida a Renzi non avviene sulle procedure congressuali, che pure hanno una logica stringente, ma su problemi concretissimi. Ad esempio:
- Modifica del jobs act sul reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato. La monetizzazione dell’ingiustizia è un atto privo di etica pubblica.
- Regolamentazione rigida dei voucher, una piaga sociale che danneggia il lavoratore ma anche lo Stato.
- Reintroduzione dell’Imu sulle prime case di lusso, così come vuole la Costituzione a proposito di progressività delle imposte.
- Piano nazionale per la messa in sicurezza (sismica e idrogeologica) del territorio su cui incardinare una politica per l’occupazione giovanile.
- Mettere sugli investimenti ogni risorsa recuperata dalla lotta all’evasione. Gli investimenti creano lavoro e servono ad un Paese in cui, come ci dicono Ue ed Ocse, la produttività precipita.
- Aprire una riflessione seria sul ruolo del Pd nel territorio (perdita di iscritti, sezioni inattive, ecc). A meno che l’organizzazione del partito non sia considerata inutile, visto che c’è un leader sempre in televisione o in rete. Il leader populista si rivolge direttamente al popolo.
Nello specifico di questi nodi, nella loro apparente parzialità, è possibile vedere in trasparenza le sfide che attendono una sinistra democratica e di governo. Serve un nuovo partito? La risposta deve restare sospesa, ciò che serve è uno spazio di movimento che, nella civiltà della robotica, produca pensiero politico e proposte ispirate alla centralità del lavoro, come recita l’articolo 1 della Costituzione. Deve essere perciò un campo aperto a tutta la sinistra, compresa quella che è ancora nel Pd. Però, come fondatore e storico elettore del Pd, andrò a votare alle primarie e voterò per Orlando, per l’equilibrio mostrato nel candidarsi e per dimostrare che gli equilibri interni a quel partito continuano ad interessarmi. Non credo che qualcuno me lo impedirà.

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