Se ora ci dividiamo la guerra sarà persa

Rimini

L’aspetto più drammatico di ciò che è successo ieri è che non ci ha colti di sorpresa. E’ come se lo stessimo aspettando. E’ come se ormai l’orrore facesse parte della quotidianità. Ciò che colpisce ancora di più è che gli stessi apparati di sicurezza lo abbiano più volte affermato: era previsto. L’allerta era così alta che non è stato possibile alzarla dopo gli attentati. Significa che al momento attuale il Belgio, e forse l’Europa intera, è impotente davanti al terrore. Sappiamo che ci colpiranno ma non siamo in grado di fermarli. L’ulteriore conferma è stata la cattura di Salah Abdeslam, uno dei responsabili della strage di Parigi del 13 novembre scorso. Per 127 giorni, centoventisette giorni, l’uomo più ricercato in Europa non ha mai lasciato il proprio quartiere. E’ sempre stato lì. Protetto probabilmente anche dall’omertà dei vicini. E, nonostante tutto, la tensione è sempre stata altissima. Tre giorni dopo il suo arresto, Bruxelles è finita sotto attacco. Sono stati colpiti l’aeroporto internazionale e la metropolitana. Due obiettivi sensibilissimi. Per trasmettere un altro messaggio: “Possiamo attaccare quando e dove vogliamo”.
“Siamo in guerra”. E’ una delle affermazioni più ricorrenti di ieri. Rilasciata nelle conferenze di alcuni presidenti e ripresa, con tanta rabbia, da tanti cittadini. E’ un’affermazione che pone però diversi interrogativi. Siamo chi? In guerra contro chi? E dove si combatterà?
In questi giorni si parlerà tanto di Bruxelles. Probabilmente anche più del necessario. E soprattutto saranno tracciati dei colpevoli che non lo sono. Da musulmano mi verrà chiesto, anzi è stato già fatto, di prendere le distanze dagli attentatori. Come se io e loro appartenessimo alla stessa categoria.
I soliti chiederanno di chiudere i confini, bloccare i barconi e respingere i profughi. Quando in realtà, retorica a parte, sappiamo benissimo che i responsabili non hanno mai avuto a che fare né con i profughi né con i barconi né tanto meno con il mio islam. Sono ragazzi europei. Nati e cresciuti in Europa. Fuori però dalla civiltà europea. Hanno vissuto nei loro quartieri, a margine della società. I loro unici mentori sono stati, probabilmente, le persone che le hanno trasformati in macchine della morte.
E’ questo ciò contro cui dobbiamo combattere. Tutti noi. Non è questione di bombardare Raqqa o Mosul. Noi, prima di tutto, dobbiamo bombardare quei muri che ci separano. Che alimentano quell’esclusione che giorno dopo giorno si trasforma in odio. Fino a sfociare nel terrore. Chi ha colpito ieri Bruxelles, e a novembre Parigi, vorrebbe vederci spaventati e divisi. Perché essere divisi è sicuramente un modo per non vincere questa guerra. Chi si fa saltare in aria non vorrebbe mai vedere il vescovo di Rimini e l’imam nella stessa piazza, a piangere i morti e rispettare i vivi.
L’Italia in questo caso può godere di un vantaggio: non ha quartieri come Molenbeek e le banlieue francesi. Il nostro compito è fare in modo che non vengano costruiti mai. Perché se l’intenzione è quella di integrare, è deleterio pensare di poterlo fare isolando chi viene considerato diverso.

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