Il Teatro Galli e i limiti di una città

Rimini

Bisogna ammetterlo: il fatto che la città di Rimini si stia riappropriando del suo Teatro Municipale-Vittorio Emanuele-Amintore Galli riempie tutti di orgoglio e soddisfazione. Sia coloro che a teatro (o all’opera o ai concerti) ci vanno, sia quelli che preferiscono altro (e non è un delitto). Sia i cultori del belcanto che gli amanti della sperimentazione. Sia chi ha già pronto l’abito da sera con i lustrini per l’inaugurazione, sia quelli che a teatro indossano le sneaker e chissenefrega. L’arte non ha, o non dovrebbe avere, padroni. E un teatro non è un monumento, non è un palazzo, non è fatto (solo) di poltrone e specchi, ma di ispirazione e talento.
È di certo un sentiero lungo e anche piuttosto accidentato quello che porta Rimini alla riapertura del suo teatro principale. I più superstiziosi parlerebbero di una «maledizione», ma noi superstiziosi non siamo.

Anche se tra rinvii, fallimenti di impresa e nuove scoperte archeologiche – ultima delle quali una basilica paleocristiana sotto le fondamenta – ci sarebbe di che farsi qualche domanda. Però la strada è imboccata, e questa volta difficilmente si tornerà indietro.

Dunque, tutti felici, andremo all’opera, indosseremo i nostri smoking. E non potremo che esserne grati perché probabilmente, arrivati a questo punto, era davvero l’unica cosa da fare: mettersi a testa bassa a completare un progetto di ricostruzione un po’ anonimo giunto al termine di una bruttissima e almeno trentennale querelle.

Ma adesso che il cantiere procede, che le superfetazioni sono state smantellate, e che da piazza Malatesta i resti del teatro Galli sono ben visibili, be’ adesso è chiaro a tutti che non di ricostruzione si tratta, ma di vera e propria costruzione. Il nostro teatro non c’era più, da tanto, tantissimo tempo. C’è un bel foyer ottocentesco, ci sono le colonne, i soffitti, i lampadari, il sipario con Giulio Cesare che attraversa il Rubicone (o il Pisciatello, fate voi), ma il teatro no, quello non c’è. Niente soffitto, niente pareti se non monconi, niente poltrone, o stucchi, o velluti, o palcoscenico… Quello che ci apprestiamo a fare, con il placet della Soprintendenza, il sincero entusiasmo di molti e le perplessità di pochi altri, è ricostruire ex novo un teatro in stile ottocentesco nell’anno domini 2015. Un falso, pur se d’autore.

Eppure, il progetto – bello, moderno, funzionale, “firmato” da uno studio prestigioso come quello fiorentino di Adolfo Natalini – c’era: aveva pure, pensa un po’!, vinto un regolare concorso indetto dal Comune nel 1984 e approvato dal Consiglio comunale nel 1999. Ma si sa come vanno queste cose: cambiano i sindaci (da Chicchi si passa a Ravaioli), e le novità non a tutti piacciono. Men che meno piace l’idea che un teatro debba “servire” e non “essere”: che cos’è quella platea moderna e minimale che può ospitare comodamente gli spettatori e permettere una visuale democraticamente buona per tutti? Noi vogliamo i palchi borghesi che i nostri avi avevano acquistato per dimostrare il loro status, vogliamo il lustro d’antan, la rispettabilità, questo teatro nuovo non ci rappresenta! Così il comitato del “dov’era com’era” (sottinteso: il teatro lo vogliamo tale e quale a quello dei nonni) ha la meglio sul disegno nuovista di Natalini e soci. Il cui progetto finisce (non senza un consistente esborso pubblico) nel cestino di Palazzo Garampi.

A nulla, negli anni, sono valsi gli interventi di attori, registi, musicisti, pronti a giurare che farlo moderno, il nostro teatro che non c’era più, sarebbe stato meglio, che ci sarebbero stati più spettatori (il che significa permettersi gli alti costi di gestione), che con moderne attrezzature si sarebbero potuti allestire più spettacoli. E nemmeno sono stati di qualche utilità gli appelli di architetti e storici dell’arte, che da più parti si sono affrettati a spiegare che sì, quello del Poletti era un bel teatro, ma tra bombe e incuria era andato distrutto, e dunque ricostruirlo tale e quale, ai giorni nostri, sarebbe stato un falso storico, un pacchiano tentativo di cancellare la storia e anche l’evoluzione del gusto e della tecnologia (così come lo sono, in misura minore, i lampioni in stile Ville Lumière che punteggiano le nostre strade e le piazze, ma questo è un altro discorso).

A voler vivere di rimpianti, con Natalini avremmo potuto tenerci il foyer per sfoggiare i gioielli di famiglia, e allo stesso tempo avere una struttura polifunzionale per permettere alla cultura di circolare più liberamente.

Sì, è vero, il progetto alfin trionfatore, quello filologico polettiano rivisto dal duo Garzillo-Cervellati, è stato in seguito riadattato e reso più funzionale aggiungendovi spazi e servizi che nell’Ottocento non c’erano (anche perché altrimenti non avrebbe mai ottenuto i permessi necessari). Sì, è vero, se avessimo riaffrontato da capo la questione del progetto staremmo ancora qui a battagliare sui giornali o sui social, mentre invece intanto il foyer ha riaperto, le ruspe lavorano, i mattoni si consolidano.

Ma se appena ci fermiamo a pensare che avevamo in mano un progetto di ricostruzione adeguato ai tempi, firmato da un architetto importante come Natalini, che comunque salvava e conservava la parte ottocentesca ancora in piedi, e lo abbiamo buttato nel cestino pagando fior di penali perché troppo moderno; se ci fermiamo a pensare che stiamo ricostruendo (dal nulla) quel che era già crollato 70 anni fa; se pensiamo che il numero dei posti probabilmente non sarà sufficiente per una buona gestione, che la visibilità dai palchi sarà scarsa, la macchina scenica ridotta... Be’, allora un po’ di scoramento potrebbe sovvenire; qualche volta essere “provinciali” non è una bella cosa.

Ma orsù, avremo dunque il nostro teatro in stile “Italia in miniatura” e ne saremo contenti. Il teatro Galli che fu è morto, viva il nuovo-vecchio teatro Galli.

Vera Bessone

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