La veglia cinica di un valore

Rimini

C’è un ragazzo di 18 anni morto per droga e abbandonato nell’auto dagli amici. Ci sono due genitori sconvolti che chiedono giustizia e verità. E poi ci sono anche quattro giovani indagati che, indipendentemente dall’esito penale di questa vicenda, conosceranno la loro vera pena il giorno in cui le loro coscienze dovranno fare i conti con la gravità di quello che hanno combinato. Ce n’è abbastanza, insomma, per chiedersi dove stiamo andando. E cercare di capire se i fatti di Lugo siano un caso isolato o l’inevitabile segno di una società che degenera sotto i nostri occhi senza che noi riusciamo a capirci qualcosa. Che tu sia genitore, insegnante, o semplice cittadino la domanda alla fine è sempre la stessa: dove stiamo sbagliando?
Una domanda che ormai percorre tre generazioni da almeno mezzo secolo, da quando la droga ha smesso di essere un vizio per ricchi per diventare un problema dei giovani. Purtroppo l’inchiesta dei carabinieri non ridarà Matteo indietro ai suoi genitori e non servirà, da sola, nemmeno a far capire ai suoi amici che hanno sbagliato.
E allora per dare un senso al tutto dovremmo sforzarci di capire cosa si è rotto, quali valori siano andati in frantumi, quale linea all’apparenza invalicabile è stata superata.
Il punto è proprio qui: chiedersi perché i nostri figli si drogano è una domanda che ha ormai 50 anni. Una domanda legittima, ma ormai sostanzialmente inutile. È la stessa domanda che poteva farsi qualunque genitore passando per piazza San Francesco negli anni 70, col boom dell’eroina che falciava una generazione.
Ma se cambiano i giovani, dovrebbero cambiare anche le domande dei loro genitori.
La sensazione è che in quel parcheggio di Lugo non si sia consumata “solo” la tragica fine di un ragazzo. Ma qualcosa, se possibile, di ancor più grave e per certi versi drammaticamente nuovo.
L’aspetto più triste (e inquietante) è quello che si è consumato attorno a Matteo, con quei giovani compagni che diventano spettatori passivi e terrorizzati di quell’agonia solitaria. Fino al ritorno a casa. Nei loro letti. Con l’amico agonizzante lasciato lì. Una fuga agghiacciante, forse per non vedere, forse per prendere le distanze da tutto quello genericamente definibile con la parola “guai”. Come se potesse esistere un “guaio” peggiore della morte di Matteo. La vera tragedia, insomma, non è solo nella perdita (forse evitabile) di un ragazzo di 18 anni, ma in tutto quello che ci è girato attorno. In quella veglia cinica di un valore. Un valore che, almeno a quell’età, si credeva sacro e inviolabile. Il valore dell’amicizia.

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