E allora per dare un senso al tutto dovremmo sforzarci di capire cosa si è rotto, quali valori siano andati in frantumi, quale linea all’apparenza invalicabile è stata superata.
Il punto è proprio qui: chiedersi perché i nostri figli si drogano è una domanda che ha ormai 50 anni. Una domanda legittima, ma ormai sostanzialmente inutile. È la stessa domanda che poteva farsi qualunque genitore passando per piazza San Francesco negli anni 70, col boom dell’eroina che falciava una generazione.
Ma se cambiano i giovani, dovrebbero cambiare anche le domande dei loro genitori.
La sensazione è che in quel parcheggio di Lugo non si sia consumata “solo” la tragica fine di un ragazzo. Ma qualcosa, se possibile, di ancor più grave e per certi versi drammaticamente nuovo.
L’aspetto più triste (e inquietante) è quello che si è consumato attorno a Matteo, con quei giovani compagni che diventano spettatori passivi e terrorizzati di quell’agonia solitaria. Fino al ritorno a casa. Nei loro letti. Con l’amico agonizzante lasciato lì. Una fuga agghiacciante, forse per non vedere, forse per prendere le distanze da tutto quello genericamente definibile con la parola “guai”. Come se potesse esistere un “guaio” peggiore della morte di Matteo. La vera tragedia, insomma, non è solo nella perdita (forse evitabile) di un ragazzo di 18 anni, ma in tutto quello che ci è girato attorno. In quella veglia cinica di un valore. Un valore che, almeno a quell’età, si credeva sacro e inviolabile. Il valore dell’amicizia.