Stefano Medas: «Archeologo e sub, il mio lavoro nato da due grandi passioni»

Rimini

RICCIONE. Ci sono mestieri che richiedono un livello di specializzazione e competenze particolare. Quello di Stefano Medas è uno di questi. Il 52enne riccionese è un archeologo subacqueo e navale. Navi, barche, edifici, sepolti dal tempo e sommersi dall’acqua, si ripresentano agli occhi dell’uomo in modo spesso casuale. Basta un’indagine preliminare per realizzare una diga o un ponte, gli strumenti indicano la presenza di un oggetto “sospetto” e da lì inizia la ricerca archeologica.

Come si diventa archeologi subacquei?

«Ho sempre avuto la passione per l’archeologia, fin da ragazzino, quando già sognavo di diventare un archeologo. E ho sempre avuto anche la passione per il mare, così, durante gli anni dell’università, ho conseguito i brevetti per l’attività subacquea. Per fare questo lavoro non ci sono in Italia dei veri e propri percorsi universitari, ma solo alcuni (davvero pochi) insegnamenti propedeutici. Io mi sono laureato in storia antica a Bologna e più tardi ho ottenuto il dottorato di ricerca in Spagna. Il primo lavoro di archeologia subacquea l’ho fatto nel 1989 in un lago del Piemonte, quando ero ancora studente».

La passione per la subacquea però deve essere accompagnata anche da una grande passione per la storia antica.

«Certo, ho una formazione innanzitutto storica. I miei campi di studio sono la storia della navigazione e l’archeologia navale, entrambe materie che ho insegnato all’università, come docente a contratto di Storia della navigazione antica (Bologna) e di Archeologia e storia navale fenicio-punica (Cagliari). Su queste materie ho tenuto vari corsi e seminari anche nelle università spagnole».

Fare archeologia sott’acqua è più difficile?

«I princìpi sono sempre gli stessi, ovviamente, mentre le tecniche sono diverse. Non si scava con la cazzuola ma con la sorbona, una specie di aspiratore subacqueo che lavora per depressione. Comunque, anche sott’acqua si usa la cazzuola, per esempio quando si scava nel fango di consistenza plastica, che poi si aspira con la sorbona».

Quanti siete in Italia a fare questo lavoro?

«Non molti. Effettivamente operativi possiamo pensare a trenta o quaranta professionisti”.

E negli altri paesi questa attività è più sviluppata?

«Sì, penso alla Francia, paese che considero storicamente come la grande madre dell’archeologia navale e subacquea, a livello internazionale. Ma c’è una lunga tradizione anche in Inghilterra e in altri paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Danimarca, Svezia, per i laghi la Svizzera). In area mediterranea sono molto attivi gli Spagnoli e più recentemente anche i Croati».

Quale lavoro ricorda con più piacere?

«San Marco in Boccalama, nella Laguna Veneta. Lì abbiamo messo in secco un ettaro e mezzo di laguna dove si trovava un’isola sprofondata insieme al suo monastero medievale. Prima di finire sott’acqua, tra il XIV e il XV secolo, gli uomini fecero di tutto per salvarlo. Nel sito sono stati scoperti anche i relitti di due grandi navi trecentesche, una galea e una rascona. Erano servite come casseri di fondazione per costruire una struttura adiacente al monastero, forse anche per difendere l’isola dal fenomeno dell’acqua alta, che diventava sempre più grave a causa del progressivo abbassamento di quota del terreno. La presenza dei due scafi fu riconosciuta con la sonda metallica, durante una prospezione archeologica preliminare ad opere pubbliche in laguna».

Dove sono ora queste due navi?

«Sono rimaste sott’acqua insieme ai resti del monastero. Dopo aver messo in secco il sito per il tempo strettamente necessario a eseguire i rilievi, quindi dopo aver opportunamente riprotetto i relitti e ripristinato il piano di fondo lagunare, l’intera area è stata riallagata. I costi per il restauro e la conservazione del legno bagnato (all’aria si disgregherebbe) sono elevati, i lavori lunghi e molto complessi. Ma abbiamo potuto studiare molti aspetti del sito e degli scafi che hanno aggiunto tasselli importanti alla ricostruzione storica. Un domani, se ci saranno le condizioni e le risorse necessarie, si potrà nuovamente intervenire».

E in Romagna ricorda qualche lavoro?

«Il più bello è stato quello della cosiddetta “Barca di Teodorico”. Il relitto fu ritrovato a poche centinaia di metri dal Mausoleo, durante i lavori per la realizzazione del Parco di Teodorico, a Ravenna, a fine anni Novanta. Risale al V secolo dopo Cristo e giaceva a 8 metri di profondità nel terreno, sugli antichi livelli di spiaggia. Si tratta del relitto di un’imbarcazione a vela in origine lunga circa 9 metri; è ben conservato e rappresenta una straordinaria testimonianza del passaggio dalla tecnica di costruzione navale antica a quella medievale».

E nel mare si può trovare qualcosa?

«Certo. A Cattolica, durante i lavori per la costruzione della nuova darsena, fu rinvenuta una discarica di anfore e di altri materiali del terzo secolo avanti Cristo. Una scoperta eccezionale che testimonia come la foce del Tavollo svolgesse già in quell’epoca la funzione di scalo nautico, dunque che fosse già frequentata dai primi coloni romani che raggiunsero l’area padana, in un periodo contestuale alla fondazione di Ariminum (Rimini). Uno scalo di età romana, ma più tardo rispetto a quello di Cattolica, doveva esistere anche a Vallugola. Inoltre, nel mare antistante sono numerosi i reperti recuperati dai motopescherecci che operano la pesca a strascico».

Si può fare di più per legare il turismo e l’archeologia marina?

«Esistono già varie iniziative. A Baia (Napoli), per esempio, c’è un parco archeologico sottomarino con percorsi di visita per i subacquei. Va ricordato, però, che la Romagna e la Laguna Veneta sono uno dei settori geografici più interessanti d’Italia per quanto riguarda la marineria tradizionale (cioè la marineria da lavoro, sia da pesca che da traffico). Non a caso proprio in Romagna sorgono due musei dedicati alla marineria tradizionale, a Cesenatico (Museo della Marineria) e a Cattolica (Museo della Regina, sezione di marineria). Ma anche altre città romagnole hanno contribuito a recuperare questo patrimonio, da Cervia a Bellaria, da Rimini a Riccione. E proprio nel porto di Riccione staziona la Saviolina, lancione a due alberi del 1928 tuttora navigante. La conservazione della marineria tradizionale assume dunque un valore sia culturale che turistico di alto profilo, testimoniando gli ultimi esiti di una cultura del mare antichissima e oggi completamente scomparsa».

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