Quando la pesca si racconta

Rimini

di FABIO FIORI

Adriano è il paròn capace di insegnare a guardare il cielo, a sentire il vento, ad alzare una vela, a calare una togna. Con le sue mani ha saputo ridare un orizzonte a gloriosi bragozzi e battane, con i suoi racconti ha acceso fantasie marinaresche e pescherecce, con i suoi diari lascia una preziosa memoria storica sul secondo Novecento di Bellaria, della Romagna e più in generale della cultura del mare. Di quell’Adriatico che è stato per lui culla e frontiera, spazio lavorativo ed esperienziale.

Nelle pagine del nuovo libro “S’un roéfli ad vént” (Ed. Garattoni; pp. 100; 8 euro), pazientemente raccolte e ordinate dalle figlie Elena e Grazia, Adriano ricostruisce la storia della sua vita famigliare e professionale, restituendo un quadro vivissimo e dettagliato di una borgata di pescatori cresciuta alle foci dell’Uso, di un piccolo portocanale che da secoli ospita decine di barche da pesca. Sono pagine utili non solo a chi voglia ritrovare atmosfere, preoccupazioni e sogni degli anni dell’immediato dopoguerra, ma anche per tutti quelli che vogliono conoscere il mare, raccontato da un protagonista. Occasione inusuale, considerando la rinomata ritrosia letteraria dei marinai, uomini più vezzi a leggere i segni del mare e del cielo che i libri, più abili a tenere in mano scotte e drizze che penne. Adriano ha qui riunito ricordi di terra e di mare, frammenti del lavoro che gli uomini svolgevano a bordo e di quello delle donne fatto a terra. Tra questi la realizzazione delle reti era sicuramente uno dei più impegnativi e al contempo gratificanti. Tutti a casa Barberini si adoperavano nell’impresa, durante le lunghe pause imposte dall’inverno alla pesca. “Preparare le reti era faticoso ed anche se si svolgeva da seduti era molto impegnativo per le braccia al punto da non riuscire a sollevarle. I risultati di quei sacrifici però sarebbero emersi con prepotenza: quelle straordinarie trappole ripagavano tutti nel momento del loro utilizzo durante la pesca”.

Dettagliata è anche la rassegna finale degli attrezzi da pesca, raccontati nelle loro forme e nei loro usi, come solo un pescatore esperto può saper fare. C’è il saltarello, la tratta, la nassa, il cogollo, la coccia, e’ smenacul, la sfogliara, la tartana e in ultimo la lampara, forse la tecnica più suggestiva, un arcaico rituale che sfruttando la capacità attrattiva della luce si conclude con “la manovra di chiusura della rete attraverso lo scorrimento del cavo all’interno degli anelli fissati alla grande rete e mentre il pesce ignaro guizza tutt’attorno al fascio di luce, sotto di sé si compie il suo destino”.

Questo diario rappresenta un prezioso documento memoriale sulla vita peschereccia, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, un trentennio caratterizzato dall’imporsi dei motori anche sulle barche più piccole, a cui corrispose una rapidissima evoluzione nelle tecniche di pesca. Emblematico il caso della pesca volante o giapponese, che agli inizi degli anni Sessanta rivoluzionò la pesca del pesce turchino, oggi purtroppo malamente italianizzato in pesce azzurro. L’allora quattordicenne Adriano ricorda che ogni uscita era un’avventura, un po’ perché inesperti, un po’ perché il mare regalava ancora straordinarie pescate. Come quella fatta al largo di Porto Corsini, quando l’acqua si trasformò come per incanto in una “prateria d’argento”, tanto il mare era stretto di grossi cefali.

Avventure di vita e di morte, perché il mare vero, quello vissuto e raccontato da Adriano, è capace di regalare inimmaginabili gioie e mortali dolori. Malgrado tutto “La grande passione per quel lavoro ingrato e affascinante, peculiarità della mia famiglia, era entrata con prepotenza anche dentro di me” e di riflesso, leggendo queste pagine, dentro di noi.

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