«Ero incantato dalle barche con le vele colorate...»

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Per tutti quelli che sognano o hanno sognato di autocostruirsi una barca, Rodolfo Foschi è un punto di riferimento. C’è chi lo ha conosciuto leggendo i suoi articoli, sulla rivista di culto “Bolina”, oppure i suoi libri, tra cui l’ultimo “Buonvento e Granvento. Istruzioni per costruirsi due barche”. C’è chi l’ha incontrato personalmente in uno dei tanti cantieri con cui collabora e chi ne ha semplicemente sentito parlare in banchina. Se solo alcuni, ormai tanti, hanno poi avuto la fortuna di commissionargli personalmente un progetto o di lavorare su uno di quelli standard, che oggi si possono acquistare anche online, tutti però hanno imparato qualcosa da lui. Rodolfo Foschi è un punto di riferimento per ogni marinaio curioso, un architetto all’antica che ama disegnare con la matita sulla carta e, se necessario, sa anche segare un corso di fasciame.

Ma, come in ogni avventura marinaresca che si rispetti, partiamo dal primo porto, quello da cui Foschi ha preso il largo e, come da sempre accade a bordo, ci si dà del tu.

Nella tua biografia si legge “riminese di nascita e fiorentino d’adozione”.

«Ebbene sì, nonostante il mio parlare fiorentino, sono nato, nel 1941, in una casa davanti alla stazione ferroviaria di Rimini. Gli antenati dei miei figli avevano a che fare con la terra, vecchie storie di famiglia narravano di cento poderi nella piana di Romagna. In città ho cugini ed un mazzo di nipoti. Quando mio padre smise di trascinare la famiglia in giro per l’Italia (era un funzionario dello Stato) tornò ad invecchiare, su un poggio ad Ospedaletto. I miei figli hanno trascorso le estati della loro infanzia in quella casa, dove si riunivano parenti ed amici per piade, grigliate e sangiovese».

Hai mantenuto un qualche legame con Rimini o più in generale con la Romagna?

«Ho vissuto in città fino ad una decina di anni, frequentando la scuola elementare in Piazza Ferrari, vagabondando al porto, incantato dalle grandi barche con le le vele colorate, di cui ho ancora nelle narici l’odore di legno, pece e sale. Tutte le prore avevano masconi possenti, occhi per trovare la rotta, timoni a barra per tenerla. Grande fu la meraviglia quando emerse, dall’ombra in cui l’avevano costruito, il più strano degli scafi: prora finissima e cieca, poppa fuori dall’acqua, timone sotto la pancia che non capivo come si potesse governare senza barra. Da quel giorno la vasca dei giardinetti della stazione, non vide più pezzi di legno in forma di trabaccolo o bragozzo, ma pezzi di legno sbozzati in forme che, ai miei occhi di bimbo, apparivano magnifici yacht. Credo che quell’infantile stupore sia stato il seme da cui, negli anni seguenti, sarebbe cresciuta la conoscenza delle carene».

Dove hai studiato e quando hai incominciato a pensare al mestiere di architetto nautico?

«Dopo anni di cambi di città, la famiglia approdò a Firenze. Conseguii la laurea in architettura preparando esami nel poco tempo che rimaneva tra girare manovelle in regata, fare l’istruttore sub, costruire la mia prima barchetta. Da architetto ho fatto qualche casa, ma presto sul tavolo sono rimasti solo disegni di carene e piani velici. Non saprei dire in quale momento ho cominciato a progettare barche, in modo istintivo da bambino, ma già al liceo avevo discrete nozioni di fluidodinamica ed imbrattavo carta con scafi di una travolgente ingenuità. Il passaggio dai disegni onirici a quelli eseguibili avvenne negli anni dell’università, un tempo in cui presi a frequentare cantieri. I libri furono una buona base per lo studio, intrapreso allora e tuttora lontano dall’essere compiuto, ma un contributo fondamentale alla formazione venne dall’osservare i maestri d’ascia. In pochi luoghi brilla il segno dell’intelligenza, quanto là dove si lavora con le mani».

Quali sono state le tue prime esperienze professionali di progettazione?

«Doveva essere il Settanta, la prima volta che incassai del denaro. Un cantiere di Torre Del Greco mi pagò quarantamila lire per il disegno di un veliero di dieci metri. Ne vararono due ed uno fu esposto al Salone di Genova. Mi parve d’essere un vero professionista.

Seguirono gli anni folli in cui gli italiani, dopo aver firmato cambiali per comprare l’auto, presero a firmarle per comprare la barca. Sprofondai nella demenza e misi su uno studio con disegnatori e segretarie. Sono di quell’epoca progetti di barche industriali in vetroresina, di qualche motoryachts, di varie barche all’unità in materiali assortiti, di quello che, al momento, era il più grosso scafo in composito mai realizzato. Un veliero di venticinque metri in cui inventai alcune prelibatezze che nei decenni successivi sarebbero diventate pasto quotidiano, come il bulbo mobile e la poppa apribile per infilarci dentro il tender. Una brutta strada! Per mia fortuna ebbi una illuminazione salvifica: buttai in Arno la chiave del megastudio ed armai in casa un tavolo con matite e flessibili. In questa felice solitudine può accadere di trascurare il progetto per un armatore pronto ad onorare una sostanziosa notula e perdere tempo col disegno di uno sciagurato autocostruttore da cui incasserò due bottiglie di vino».

Passeggiando sulle banchine romagnole, un occhio esperto può riconoscere alcune tue barche. Ci racconti qualcosa di queste?

«La prima che mi viene a mente è Maria di Werter, che ormeggia a Rimini. Un cutter di 8 metri e mezzo, a spigolo, in compensato marino. Poi affiora l’immagine di Calypso, in acciaio di una dozzina di metri. Ha stazionato, in lento allestimento, sempre a Rimini, davanti al cantiere Centofiori. Fu costruito da una carpenteria metallica, da qualche parte tra le nebbie padane. A Marina di Ravenna c’è Mata Hari, un dieci metri in ferro autocostruito da Marco, che l’ha appena venduta e vagheggia una nuova barca, in legno strip planking, di quattordici metri. Gli autocostruttori, magari cambiano i materiali, ma non perdono il vizio! Andando indietro nel tempo, ricordo lontane estati in cui, libero dal lavoro, raggiungevo la famiglia a Rimini e non mancavo di andare a San Mauro Mare. Lì un albergatore costruiva uno schooner in ferrocemento di una ventina di metri, di cui in anni recenti ho visto in rete la foto nel Mar dei Caraibi. Spero che a bordo ci sia ancora quell’intraprendete romagnolo a godersi una serena vecchiaia. Oggi poi voglio ricordare il cutter in lega che il viserbese Alessandro sta completando con straordinaria attenzione e abilità. Infine, poiché sono riminese anch’io, mi piace mettere tra le barche romagnole il mio Roan, un dodici metri in vetroresina, fatto con le mie mani. Ci sono diventati marinai i miei figli e molti loro amici».

Autocostruttori quindi, non solo romagnoli. Ma qual’è la differenza tra chi decide di fare da sé e chi invece preferisce acquistare l’oggetto del desiderio?

«Se si tratta di far realizzare da un artigiano, quella barca che esiste solo nella nostra mente, introvabile tra la noia degli oggetti industriali, si può fare. Difficilmente si risparmia denaro, ma la scelta è razionale. Se si pensa all’autocostruzione la faccenda è diversa. Scegliere di mettersi nell’impresa per spender poco è modo certo per popolare cortili di periferia, fienili e capannoni dismessi, con relitti abbandonati all’ortica prima di toccare l’acqua. Naufragi della mente. L’autocostruttore non ha facoltà di scelta. Similmente al primo di cui si abbia memoria, non può fare altro che ubbidire: “la voce del Signore comandò a Noè di costruire l’Arca”».

In un periodo di difficoltà economiche come questo, credi che l’autocostruzione possa essere un’alternativa all’acquisto di barche nuove o, più in generale, pensi che possa essere un modo per riscoprire le piccole barche?

«L’attuale gigantismo ha a che fare più con la spocchia della ricchezza, che con l’amore per il mare. Tornare a dimensioni ragionevoli è necessario per la sopravvivenza della specie nautica. Tuttavia non sempre l’autocostruttore pensa in piccolo. Ho accompagnato nell’avventura molti dei miei grulli alle prese con barche di quindici, venti metri. Il massimo è una nave di trentadue. Ma questa è un’altra storia».

Come lavora oggi un progettista nautico?

«All’alba della nautica esisteva il progettista, ma c’era anche il committente, persona che sapeva andare in mare e nutriva un pensiero su come dovesse essere la sua barca. Tra i due nasceva un rapporto, che talvolta non è improprio definirlo d’amicizia, da cui scaturivano i disegni. Si potrebbe dire che autore del progetto fosse l’armatore e che l’architetto non facesse altro che dare coerenza tecnica alle sue idee. Poi la barca diventò oggetto seriale ed il committente non fu più quello che avrebbe navigato, ma un imprenditore attento ai costi di produzione, e tuttavia con ancora qualche passione per il mare. Era il tempo in cui il pieghevole che pubblicizzava la barca portava scritto il nome del progettista, ma bastava uno sguardo per riconoscerne la mano. Non di rado erano stampate le linee d’acqua e l’armatore possedeva ancora una preparazione sufficiente a leggerle. Capiva cosa stava comprando e l’identità del disegno aveva voce nella scelta. Infine la contemporaneità. Il committente è una Società Anonima il cui fine è massimizzare i profitti, che vengano dal far scafi o dal far mortadelle è indifferente. L’armatore compra la barca con lo stesso animo, e la stessa competenza, con cui compra l’auto. Il progettista non esiste, i disegni sgorgano dal computer, un ragazzo con qualche cognizione di informatica è sufficiente. Se mai affiora un nome, è quello dello stilista che ha ideato degli arredi, fichissimi in porto, pericolosi in navigazione.

Credo di essere l’ultimo relitto culturale che disegna barche congrue all’uso che intende farne una persona reale. Per la verità qualcosa di aggiornato aleggia anche intorno al mio tavolo. Da quando si tagliano pezzi a controllo numerico, mio figlio Andrea, marinaio, ingegnere ed eccellente strutturalista, mi affianca per queste modernità. Formidabile strumento è il computer nelle mani di chi saprebbe progettare anche senza».

Per concludere, come è nata l’idea del Granvento, un cabinato di sei metri e mezzo?

«Ad un certo punto del cammino, i figli fatti adulti, hanno messo su la loro vita ed il bel Roan è rimasto solo. Troppo grande per un vecchio, troppo carico di voci, di volti che non ci sono più. Ora vive altre storie con un amico che lo tiene come vanno tenute le barche. Per qualche anno, appagato dalle navigazioni sull’oceano del mio tavolo, non ho pensato realmente ad una nuova barca, ma il vizio di lasciar correre il lapis dietro alle nuvole non passa: in ogni foglio bianco c’è una meraviglia nascosta che aspetta di essere disegnata. In uno di questi fogli era il Granvento. Poi sono diventato nonno e ho sentito l’urgenza di insegnare il vento ai bambini. Così, con l’aiuto dell’amico Alfredo, ho ritirato fuori la cassetta degli attrezzi e ho ricominciato a tagliare, bucare, cucire e resinare. Oggi anche quell’idea bordeggia, in felice compagnia dei marinai di domani».

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