«Né buonista né sentimentale». Moretti, molte unghie nel velluto

Cultura

Autore di una prosa coltissima. Prolifico (in oltre settant’anni di attività pubblicò più di settanta libri). Crepuscolare e allo stesso tempo folgorante. Marino Moretti, figlio eccellente della Romagna (Cesenatico 1885-1979) non smette di essere al centro degli interessi letterari degli studiosi. La prima riedizione della raccolta di “Poesie 1905-1914” l’ha pubblicata La Nave di Teseo a cura di Renzo Cremante, già docente di Letteratura italiana all’Università di Pavia, illustre studioso e curatore dell’opera del poeta.

Cremante, in che modo gli anni successivi alla Prima guerra mondiale si possono considerare di svolta per la poetica morettiana?

«Come per molti scrittori della sua generazione, anche per Moretti la Prima guerra mondiale costituisce un netto spartiacque, l’occasione per un bilancio, per una riflessione autocritica che comporterà, d’ora in avanti, il silenzio della poesia,e una transizione sempre più meditata e consapevole alla prosa di novella e di romanzo. Che significa anche un nuovo rapporto con il pubblico dei lettori e con gli strumenti della comunicazione, dalla stampa quotidiana all’industria editoriale».

La critica si espresse in termini di riduzione avverbiale: «morettismo», «immorettarsi»...

«Il traguardo della prosa era già in parte implicito nei contenuti e nelle forme di una poesia programmaticamente prosastica. Basti citare i titoli delle sue raccolte poetiche: “Poesie scritte col lapis”; “Poesie di tutti i giorni”; “Il giardino dei frutti”, dove il frutto (o l’alberetto) della prosa non si contrappone ma si affianca al fiore della poesia: “Ecco dunque la mia prosa, / la mia prosapoesia”. Raccolte nelle quali è lecito riscontrare un’intonazione non soltanto genericamente prosastica, ma anche scopertamente narrativa. Una poesia non priva, certo, di echi pascoliani, ma dichiaratamente lontana dal lusso estetizzante del dominante modello dannunziano, del quale pure si era nutrito l’apprendistato di Moretti».

In che misura quello di Moretti appare come il canto di una poesia che non c’è o come «una poesia sull’impossibilità di fare poesia», come hanno scritto Giulio Ferroni e Vittorio Coletti?

«Credo che le affermazioni di Ferroni vadano intese alla luce della tradizionale etichetta di poesia crepuscolare (che Moretti, per altro, rifiutava): definizione coniata nel 1910, come è noto, dal critico Giuseppe Antonio Borgese che collocava quell’esperienza al crepuscolo di una tradizione illustre, conclusa nell’altisonanza celebrativa della poesia di Carducci e nel superomismo di D’Annunzio. Un testo esemplare di Moretti, che s’intitola “Io non ho nulla da dire”, esemplifica, se vogliamo, questa condizione. Non senza qualche contraddizione, come notava Pietro Pancrazi nel 1918: “ Non ho niente da dire è il motto che [Moretti] ha adottato per sé. E forse appunto per questo da tempo tra versi e prosa stampa tre o quattro volumi all’anno”».

In che maniera l’elegia delle “piccole cose” quotidiane di Moretti è rimasta come traccia per la poesia odierna, come quella dei cantautori? Lei cita l’esempio di “Piccola storia scandalosa”, divenuta canzone di Francesco Guccini.

«L’influenza esercitata dalla poesia crepuscolare – da Gozzano a Moretti – sulla poesia del Novecento è un luogo pressoché comune della critica. Non so quanto il discorso possa valere anche per i cantautori. Certo vale, in parte almeno, per un cantautore “colto” come Francesco Guccini, nelle cui canzoni sono stati più volte segnalati i debiti nei confronti di Guido Gozzano (in un testo come “L’isola non trovata” o nel “ciarpame” di oggetti abbandonati di “Vite”). A Moretti Guccini rinvia espressamente nella canzone “Piccola storia ignobile”, mutuandone persino il titolo di una poesia, “Piccola storia scandalosa”, che il cantautore aveva letto nell’“Antologia della lirica del Novecento” di Luciano Anceschi e Sergio Antonielli. E il tema scabroso dell’aborto non poteva non sollecitare l’ispirazione gucciniana».

Moretti viene anche definito il poeta da tavolino, della forbice e della colla, del levare, ma nel 1969 sorprese dicendo di avere ancora «molte unghie nel suo velluto».

«Quando parlo di forbice e di colla, mi riferisco al modo di lavorare di Moretti, ai suoi procedimenti correttorii. Quando lo scrittore, nell’intervista del 1969, afferma di avere molte unghie nel suo velluto non si riferisce, naturalmente, alla tipologia delle varianti, ma intende ricusare, con insospettata energia, l’etichetta di “buonismo”, di sentimentalismo, di mitezza, che la critica aveva frettolosamente applicato alla sua produzione soprattutto prosastica».

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