Natalini. Referendum, perchè voto sì

Editoriali

Il referendum di domani sul taglio dei parlamentari si presta ad almeno due opposte letture e interpretazioni, entrambe plausibili. La prima: si tratta del coronamento del ciclo dell’antipolitica, del “vaffa”, dello schema” popolo contro casta”, del superamento della democrazia rappresentativa sostituita da quella diretta del web.

Il taglio dei costi della politica è stato il principale traino propagandistico di tale campagna, che ha visto nel movimento 5 stelle il massimo artefice.
Si tratta in verità di un argomento molto modesto, anche dal punto di vista dei risparmi reali per il bilancio dello stato italiano, ma che ha avuto facile presa tra strati popolari colpiti duramente dalla crisi, a cui gli alti stipendi e vari privilegi di cui godono i parlamentari (e i consiglieri regionali) sono apparsi ingiustificati e intollerabili. Se l’obiettivo da perseguire però era ridurre i costi della politica, allora si potevano trovare soluzioni più logiche, ad esempio ridurre gli stipendi dei parlamentari (i più alti d’Europa), ma non il numero dei parlamentari medesimi. E tuttavia (seconda interpretazione), pur essendo figlio della stagione dell’antipolitica e del “vaffa”, la vittoria del sì al referendum potrebbe paradossalmente essere la miccia per un nuovo inizio, di un ciclo di riforme e di innovazione politica e istituzionale che riguardi non solo una nuova legge elettorale (proporzionale con sbarramento e reintroduzione delle preferenze, in grado di assicurare rappresentanza a tutti i territori e alle minoranze linguistiche) e la modifica dei regolamenti parlamentari (per garantire efficienza ad un parlamento che sarà composto da 400 deputati e 200 senatori), ma anche una consapevole rivalutazione della politica come l’attività più importante in una comunità. Il sistema politico e dei partiti della prima repubblica era sicuramente degenerato, a causa delle conseguenze della guerra fredda e quindi della mancanza di una fisiologica e benefica alternanza di schieramenti alternativi (destra-sinistra) al governo del paese, ma ciò che è emerso dopo è stato ancora peggio. Partiti-azienda, partiti personalistici con relativa corte di cortigiani, un ceto politico spesso improvvisato, legato ai sondaggi del giorno dopo e alle tecniche del marketing, privo di visione e di statualità (con, ovviamente, alcune lodevoli eccezioni). Ciò è stato possibile anche per la vulgata culturale dominante dall’inizio degli anni ’80 fino ad oggi basata sul neoliberismo, sul primato assoluto dell’economia e della finanza sulla politica, che è via via divenuta una variabile dipendente dei primi due. Se l’economia e la finanza (e quindi la tecnologia, specialmente digitale) è il luogo principe della creatività e dell’innovazione, che interesse potevano avere giovani di talento per la politica? Nessuno. La pandemia da Covid-19 è, da questo punto di vista, l’equivalente del crollo della borsa di Wall Street del 1929, che portò non subito (passò qualche anno) a ripensare radicalmente il ruolo dello Stato, e quindi della politica, nell’economia attraverso il New Deal di Roosevelt e le teorie di Keynes sul ruolo degli investimenti pubblici per rilanciare l’economia e l’occupazione. Oggi lo Stato (e le aziende da esso controllate o partecipate, spesso in settori strategici), e quindi la politica, è chiamato a svolgere un ruolo chiave e insostituibile nella transizione energetica e costruzione di una società green (il Pianeta, è sempre più evidente, sta vivendo una crisi climatica senza precedenti, dagli esiti potenzialmente catastrofici), nella digitalizzazione, nella quarta rivoluzione industriale. Per costruire politiche industriali pubbliche degne di questo nome, una rete più fitta e virtuosa di rapporti tra università e imprese per trasformare ricerche, idee e brevetti in nuovi prodotti e servizi, attorno cui costruire opportunità avanzate e ben retribuite di lavoro per i giovani e le donne, serve un potere pubblico e una politica competente e preparata, anche tecnicamente. E dalla Commissione Bicamerale Bozzi del 1983 che si è tentata la strada di una riforma organica (inclusiva anche della riduzione del numero dei parlamentari), senza concludere mai nulla. 37 anni !!! Se anche questa volta prevalesse il no, non cambierebbe di nuovo nulla, mentre il sì potrebbe funzionare da detonatore anche per una definitiva “costituzionalizazione” dei Cinque Stelle, che potrebbero trasformarsi in un partito post-populista, europeista e riformatore. In generale credo che per un Paese come il nostro, frammentato e spesso paralizzato da mille interessi spesso contradittori tra loro, il problema principale non sia un deficit di rappresentanza, ma un deficit di decisione e soprattutto di attuazione/realizzazione/monitoraggio delle azioni. Non vinceremo mai la battaglia per clima e la giustizia socio-ambientale senza una democrazia che sceglie e realizza. Un Parlamento più snello ed efficiente va in questa direzione.
*Esperto di istituzioni, politiche e programmi dell’UE

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