Nadia Campana, la pontefice che unisce Dickinson alla Romagna

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SABRINA FOSCHINI Cosa potrebbe legare Emily Dickinson, la poetessa di una sola stanza, alla nostra remotissima terra? La risposta ha il nome di una delle sue più raffinate traduttrici, Nadia Campana , nata a Cesena nel 1954 e morta a Milano nel 1984. Se la sua figura non spicca nel panorama culturale italiano, dipende solo dal tempo, dal breve calcolo di queste due date. Poetessa di grande talento con una sola raccolta a testimoniarlo, ma di grande ampiezza espressiva (Verso la mente, ristampato da Raffaelli nel 2014), Nadia nella sua opera di studiosa e critica si è confrontata con i vertici. Ha cominciato dal picco altissimo, siderale, della grande poetessa americana. Lo ha fatto per una esigenza chiara, di cercarsi dei maestri alle radici del linguaggio, tra i devoti della parola, capaci di sacrificare all’esercizio inflessibile della scrittura il pane quotidiano, la vita sociale, la famiglia. Il suo lavoro è culminato nella pubblicazione di Le stanze di alabastro, Feltrinelli, 1985, una raccolta di poesie di Dickinson da lei tradotte con perizia da orefice. Ma il suo lascito a mio avviso più prezioso sono i saggi illuminanti che le ha dedicato, pagine capaci di gareggiare poeticamente con la materia che trattano, raccolti nel libro Visione postuma, Raffaelli, 2014, a cura di Milo De Angelis, Emi Rabuffetti e Giovanni Turci. Sono state spese valanghe di parole e di congetture sulla vita di Emily che in un paesino del Massachusetts, a metà Ottocento, scrive in solitudine le migliori poesie di tutta la letteratura statunitense, e che a circa trent’anni decide di indossare vesti bianche e di chiudere la porta della propria camera al mondo intero, lasciandola socchiusa solamente per fare entrare la musica. A questo proposito Campana afferma che «un altro modo della cultura, di schiacciare quella forza poetica, è stato quello di ridurre la poetessa alla sua autobiografia… Non si vede invece la ricchezza e la potenza che sole possono permettere a una persona di decidere di praticare la creazione come mestiere; l’enormità del desiderio e l’intensità della passione di chi inventa nuove vite con le parole». A supporto di una convinzione, che s’intuisce abbracciare anche nella propria vita, Nadia cita il poeta Allen Tate: «Se si dovesse spiegare la sua clausura con una delusione amorosa, resterebbe sempre la sproporzione tra i frutti di quella clausura e la clausura stessa… Ogni pietà per la vita denutrita di Miss Dickinson è spesa male. La sua vita fu tra le più ricche e profonde che siano state vissute». C’è l’esigenza forte, personale, di proteggere l’artista, la sua altezza vertiginosa e immortale, dalle fragilità sia del corpo che dell’esistenza e per questo Campana sottolinea l’importanza del linguaggio, la capacità di Dickinson di scardinare la costruzione stessa dell’inglese, creando una lingua che non esisteva prima di lei. L’altro accento che pone è quello della musicalità dei versi giocata sul contrappunto e le sorprese, come una compositrice contemporanea che vuole «suscitare un impatto fisico con il lettore costringendolo a una cadenza del respiro sempre al limite di un estremo prolungamento». Che differenza di sguardo e di finezza intellettuale dai ritratti cinematografici di Emily come A quiet passion del 2016, che restituiscono la figura di un’isterica donna, sull’orlo di una crisi di nervi, senza dar conto dell’ironia e della levità della sua corrispondenza, della grazia serafica e filosofica dei suoi testi. Per secoli i critici continueranno a dibattere sugli accadimenti di una biografia chiusa nel proprio mistero, tra la malattia, l’epilessia presunta, l’amore per la cognata, l’identità di un destinatario sconosciuto a cui sono indirizzate lettere di passione incandescenti e meravigliose, che non trova mai un volto definitivo. Certo la maniera migliore di onorare la memoria di una scrittrice è leggerla. Le sue parole sono la parte di vita che persiste, sopravvive a lei e ai lettori stessi. Nadia Campana ha voluto legare il suo nome a Emily Dickinson, consapevole che il traduttore «è parte della grande poesia perché entra nel flusso della sua sopravvivenza» e come dice un altro amico poeta, i traduttori sono “pontefici”, ovvero costruttori di ponti da un luogo all’altro e da un tempo all’altro, persino dalla Romagna al Massachusetts di due secoli fa.

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