Mostra fotografica a Forlì: "Essere umane". Immagini e utopia

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È stata annunciata, descritta, desiderata, e altrettante volte le attese sono andate deluse a causa delle limitazioni dettate dalla pandemia. Ma finalmente la mostra fotografica Essere umane. Le grandi fotografe raccontano il mondo è stata ufficialmente inaugurata e aperta, ieri, 18 settembre, ai Musei San Domenico di Forlì dove resta allestita fino al 30 gennaio. Curata da Walter Guadagnini, che l’ha ideata e realizzata in collaborazione con Monica Fantini e Fabio Lazzari, questa è la sesta grande mostra fotografica forlivese: non una monografica, ma un arazzo di 30 voci e 310 scatti che raccontano un secolo di storia del nostro pianeta. Si va dai primordi degli anni Venti e Trenta, rigorose documentazioni giornalistiche come quelle di Tina Modotti e Gerda Taro che, sul campo, si mettono a fare un mestiere “da uomini”, all’oggi, in cui il colore si sostituisce al bianco e nero, il grande formato prende piede e «prendono piede anche i cambiamenti di prospettiva – sottolinea Guadagnini – e il punto di vista non è più solo occidentale, ma diventa composito e multiforme come è la realtà del mondo». Le immagini scelte fra migliaia raccontano una storia, quella dell’evoluzione del linguaggio fotografico, certo, ma forse si tratta solo del dato più appariscente. «Anche questa come le esposizioni che l’hanno preceduta – sottolinea infatti Monica Fantini – oltre alla grandezza artistica delle fotografe mette al centro un tema, quello della lotta alle differenze, e quindi all’indifferenza: tanto più emblematico in una città come Forlì che sta lavorando per affermare parità ed equità come suoi valori prioritari». Il concetto viene ripreso anche da Gianfranco Brunelli, vicepresidente della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì che sostiene le grandi mostre dei Musei san Domenico. Brunelli parla della fotografia come «di qualcosa di inclusivo. L’altro infatti è il mio compagno segreto. Se lo guardo, se lo vedo, entra a fare parte di me…». Ma nella mostra forlivese c’è qualcos’altro ancora: negli scatti di Lee Miller, Letizia Battaglia, Nanna Heitmann fino a quelli delle autrici contemporanee si coglie la progressiva presa di coscienza delle fotografe di tutto il mondo di poter presentare un personale e originale punto di vista: un taglio espositivo che non ha precedenti in altre mostre italiane e probabilmente neppure europee «e che accomuna la filosofia di questa esposizione con quella delle grandi mostre dei Musei San Domenico – commenta Lazzari –. In quest’ottica, si può porre un quesito sulla specificità di genere rispetto allo sguardo fotografico: ma più che una modalità espressiva vera e propria, si può parlare di un atteggiamento, fatto di passione, coraggio, impegno nella difficoltà delle scelte, e di una empatia che distingue in maniera particolare il lavoro delle fotografe da quello dei colleghi. Come si vede dalle foto in mostra infatti le autrici annullano la distanza, diventano partecipi della vicenda, senza l’esigenza alla Cartier-Bresson di cogliere l’attimo decisivo, ma semmai quella di fissare quanto chiede di essere raccontato, non necessariamente perché sia “bello”, e che altrimenti non esisterebbe, come affermava Diane Arbus». Tre le sezioni in cui si articola la mostra: quella dagli anni Venti-Trenta al dopoguerra, con gli scatti di Dorothea Lange durante la crisi americana degli anni ’30, di Lee Miller, eseguiti nell’appartamento di Hitler alla fine della Seconda guerra mondiale, della tedesca Giséle Freund e di Ruth Orkin e Tina Modotti, Berenice Abbott, Margareth Bourke- White, la prima fotografa straniera a cui fu permesso di scattare fotografie in Unione Sovietica. Nella seconda sezione, dagli anni ’60 agli anni ’80,si va dalle foto di Inge Morath alle immagini di Diane Arbus, Claudia Andujar, Graciela Iturbide, fino a quelle dell’indiana Dayanita Singh e alle italiane Carla Cerati, Lisetta Carmi, Paola Mattioli, Letizia Battaglia che documentano i cambiamenti profondi subiti in quei decenni dal nostro Paese. E infine il presente di Zanele Muholi, Newsha Tavakolian, Jitka Hanzlova, della forlivese Silvia Camporesi e poi, nell’ultima sala, “Afronauts” della spagnola Cristina De Middel, «una sorpresa per gli occhi e per l’immaginazione – afferma Guadagnini –, immagini che parlano del sogno e dell’utopia più che della realtà, come poi ci si aspetta da una mostra che, certo, racconta il mondo e la storia del Novecento, ma a cui fanno da base l’arte e la sua capacità visionaria». Info: www.essereumane.it

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