Morti in corsia a Lugo, "con la Poggiali 16 morti a settimana"

Ravenna

Il caso o la sfortuna non c’entrano. O meglio, non possono spiegare un dato di fatto, dimostrato dai numeri: e cioè, che quando di turno al reparto di Medicina dell’ospedale di Lugo c’era Daniela Poggiali, morivano più persone. Quante? Nei primi tre mesi del 2014 il picco aveva raggiunto i 16 decessi a settimana, più del triplo rispetto alle colleghe dell’Umberto I. A dirlo è la consulenza statistica che la Procura dispose all’epoca delle indagini sui presunti omicidi in corsia commessi dall’ex infermiera. Un documento choc, che il giudice Janos Barlotti cita nuovamente nell’ordinanza con la quale la vigilia di Natale ha fatto tornare in carcere la 48enne di Giovecca, 9 giorni dopo averla condannata a 30 anni in abbreviato per l’omicidio del paziente 95enne Massimo Montanari. Per il gip, è il primo fra gli elementi indiziari «gravi, precisi e concordanti», e «documenta la pratica seriale dell’omicidio dei pazienti da parte dell’imputata».

La media dei decessi

Lo studio disposto dal procuratore capo Alessandro Mancini e dal sostituto procuratore Angela Scorza aveva analizzato la mortalità nel reparto di Medicina a partire dall’aprile del 2012 per i successivi due anni, conteggiando un totale di 191 decessi. Era emerso che ben 139 erano avvenuti quando l’infermeria era in servizio, nel proprio settore e in quello comunicante. Nelle restati due aree contrapposte, invece, erano spirati solo 52 pazienti. Già nel primo anno oggetto della verifica, il tasso di mortalità registrato durante i turni della Poggiali era di 6,8 decessi a settimana, a fronte di una media di 4,5. Quel dato sarebbe poi lievitato con il passare dei mesi, arrivando – nel secondo anno preso in esame – a 11,1 morti (contro i 4,7 delle altre infermiere).

Il record e i sospetti

Già questo basterebbe per affermare – scrive il giudice – che «la precisione statistica esclude la possibilità che (...) la differenza sia attribuibile al caso». Così si arriva al picco di circa 16 decessi per settimana (oltre il triplo rispetto alle colleghe), riscontrato negli ultimi sei mesi di servizio dell’ex infermiera. Infine, la consulenza aveva pure evidenziato la flessione a 4,03, non appena la 48enne era stata rimossa. Una decisione presa d’imperio, perché l’8 aprile del 2014 – in un clima diffuso di sospetto dovuto proprio all’anomalo incremento della mortalità – viene trovata senza vita in reparto la 78enne Rosa Calderoni, facendo partire l’inchiesta per i presunti omicidi seriali commessi, sempre secondo l’accusa, mediante iniezioni di cloruro di potassio. Il decesso di Montanari, la notte prima di essere dimesso, risale al mese precedente, il 12 marzo. Di tutte quelle morti, all’epoca delle indagini, la Procura ha esaminato – per quanto ancora possibile – 38 cartelle cliniche di altrettanti pazienti deceduti durante i turni della Poggiali. Ma solo per i casi di Massimo Montanari e Rosa Calderoni sono stati individuati indizi di colpevolezza a carico dell’ex infermiera, necessari per chiedere una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio.

Un documento ignorato in Appello

Un documento totalmente ignorato dalla Corte d’assise di Appello di Bologna, che il 23 maggio 2019 ha assolto per la seconda volta l’ex infermiera dall’accusa di avere ucciso la paziente 78enne Rosa Calderoni. Tra le motivazioni che hanno portato la Corte di Cassazione ad annullare lo scorso settembre la sentenza dei giudici felsinei, figura proprio l’esclusione della consulenza statistica dalle prove. Sul tema il giudizio degli Ermellini va giù duro, censurando l’operato dei colleghi bolognesi. «La Corte territoriale – così si legge nel documento depositato a inizio dicembre – pur in presenza di una minore efficacia rappresentativa dei dati di conoscenza offerti dalla detta consulenza tecnica, non avrebbe dovuto e potuto sottrarsi al compito di prenderli, comunque, in considerazione». Ancora prima – ricorda il gip che ora ha disposto l’arresto – il Tribunale del Riesame, chiamato a pronunciarsi sulle fasi iniziali del procedimento per la morte della Calderoni, aveva definito la consulenza «un autentico macigno» che «piomba aggiuntivamente» la posizione dell’imputata, alla luce di dati che andavano a inquadrare la condotta dell’imputata in un quadro di «una diuturna e sistemica opera di eliminazione di ricoverati». Ora, riguardo alla vicenda parallela che ha dato il via all’inchiesta contro la Poggiali, si attende l’Appello ter. Un caso giudiziario unico in Italia, iniziato con la condanna all’ergastolo l’11 marzo 2016 dalla Corte d’Assise di Ravenna presieduta dal giudice Corrado Schiaretti e arrivato al primo colpo di scena, il 7 luglio 2017, quando la Corte d’assise di Appello di Bologna l’ha assolta perché “i fatti non sussistono”. Il 20 luglio 2018, la Prima Sezione della Cassazione ha annullato la sentenza, chiedendo alla nuova sezione della Corte territoriale di procedere «ad una rinnovata valutazione dell’intero compendio indiziario». Dopo le ultime due tappe (nuova assoluzione e nuovo annullamento) la vicenda attende ancora un giudizio definitivo. FED.S.

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