Monica Guerritore: «Siamo come cani ringhiosi, uno contro l’altro»

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FAENZA. L’amore per il teatro, per l’arte della recitazione e per il cinema l’hanno sempre guidata in tutte le sfide, professionali ma anche personali. Monica Guerritore è una regina sui palcoscenici italiani, oltre ad avere una carriera contrassegnata da una serie infinita di personaggi, spettacoli e produzioni di successo. È sinonimo di concretezza, forza e passione viscerale per un mestiere – quello di attrice – che l’ha portata a essere diretta da registi come Strehler, De Sica e Comencini, e ad affiancare attori come Mastroianni e Giannini. Adesso è in tour nei migliori teatri italiani con L’anima buona di Sezuan, nelle vesti di interprete e di regista, spettacolo che presenterà fino a domenica 17 novembre al teatro Masini di Faenza (ore 21). Parlerà invece del libro Quel che so di lei sempre domenica alle 17 al Fabbri di Forlì.
Dei suoi esordi, dell’amore incondizionato per il palco, di cinema, emozioni e, in generale, di vita abbiamo parlato con lei.

Sarà a teatro con “L’anima buona di Sezuan” di Brecht, cosa l’ha spinta a portarlo in scena?
«Il momento terribile che stiamo vivendo. Ci siamo infatti scoperti come cani ringhiosi uno contro l’altro; siamo sempre stati un popolo socievole e ironico, mentre ora sta emergendo sempre di più la rabbia, l’insoddisfazione, la cattiveria, la povertà d’animo e la solitudine che sembravano appartenere a un altro mondo, ma evidentemente non era così».
Come porta in scena l’essere umano?
«Quello che Brecht racconta è focalizzato nel personaggio di Shen Te; attraverso il bisogno, il disagio e la povertà viene tirata fuori la maschera cattiva che è insita nell’essere umano. L’anima di Shen Te è buona ma diventa cattiva per difendere quel poco che ha, ovvero la sua tabaccheria e il figlio in arrivo: le sue mani diventano artigli e la sua bocca si riempie di ceneri. Brecht mette così in scena tipi sociali che a loro volta raccontano quelli che sono i tipi che sono intorno a noi. La bontà diventa debolezza».
Nella pièce emergono tenerezza e amore per gli esseri umani.
«Sì, è tutto permeato. Shen Te cerca di muoversi in questo mondo agitato da persone buffe, stranite, e che non sono realmente cattive. Per Brecht, l’essere umano nasce buono».


Cosa rappresenta Strehler? «Tutto, perché io non ero nulla quando sono arrivata al Piccolo Teatro. Un angelo probabilmente mi ha preso con sé consigliandomi di accompagnare una amica a Milano, convinta che lì avrei trovato la mia vita vera e così è stato. Lì mi sono messa in platea e non mi sono più mossa, a tal punto che il maestro ogni tanto si girava e mi regalava perle di saggezza».
È con “Il giardino dei ciliegi” che fa il suo ingresso a teatro, ma cosa vuol dire stare su un palco?
«Ho cominciato talmente presto che è come se la mia anima artistica si fosse proprio adattata al corpo e viceversa. Non è una professione, ma uno stato dell’essere».

Cosa significa essere attrice?
«Questa è la mia vita. Vuol dire cercare di capire l’essere umano, di cosa ha bisogno, e combattere l’avidità che popola questo tempo. Sono una servitrice della narrazione».
Ha prestato la voce ad Alda Merini e Oriana Fallaci, qual è la loro forza?
«Sono donne sgarbate, che hanno aperto le porte a una libertà femminile piena di energia. Fallaci non ha avuto paura di non corrispondere all’immagine del femminile. Merini non ha separato l’intelletto dal corpo, la poesia metafisica è diventata carne».
Teatro e tanto cinema: cos’è per lei il grande schermo?
«L’amore di un regista. Non cambia nulla per quanto riguarda la capacità immaginaria di lavorare su un personaggio. Chi sta dietro alla macchina deve sedurre e condurre l’interprete in quella storia che si racconta».
Recitazione, ma anche scrittura. A Forlì presenterà “Quel che so di lei. Donne prigioniere di amori straordinari” in cui si parla di donne ma non solo. Ci spiega?
«La solitudine, il desiderio e la perdizione appartengono al passaggio verso la morte di Giulia Trigona, zia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, uccisa dal suo amante».

Lei ha scritto anche “La forza del cuore”: qual è?
«Quella di adattarsi ai cambiamenti, di vivere pienamente avendo a mente che ci sarà un momento di valle e poi di picco. Vuol dire accompagnare i battiti del cuore e i suoi sussulti nella vita che corre, senza fare e farci critiche e resistenza. Il libro si chiude con la frase: “Sono diventata la persona da niente che ero” a dimostrazione di come, mattoncino dopo mattoncino, costruiamo noi stessi».

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