Miseria e dignità dello strillone di Rimini

Cultura

Alto, magro quasi scheletrico, viso esangue, occhi acquosi, Pumidor non era uno strillone qualsiasi, era “lo strillone di Rimini”. Ma il termine, riferito a lui, sembrava proprio uno scherzo: dalla sua bocca la parola «Giornali!» usciva a fatica, appena un fioco filo di voce, appendice di un respiro asmatico, affannoso e sibilante. Lo “strillo”, insomma, da quella cassa toracica striminzita e sfiatata, era un “optional” che non gli era concesso. D’altronde Pumidor non aveva bisogno di richiamare l’attenzione; quei pochi che lo cercavano sapevano dove trovarlo: per il corso, nelle due piazze, lungo le vie Garibaldi, Umberto Primo e Gambalunga. Chi, invece, lo aspettava, doveva solo aver pazienza: prima o poi arrivava. La sua andatura lenta e i suoi passi strascicati non avevano orario.
Da anni sulla breccia, questa sagoma di uomo era diventata un’istituzione per la città, parte integrante del suo tessuto connettivo; una sorta di monumento ambulante. D’inverno era un cappotto che viaggiava; d’estate, senza quell’indumento cencioso e fuori misura, rinsecchito com’era, si confondeva con i pali dei lampioni. Sembrava una macchietta surreale, grottesca e tenera, uscita dalla fantasia di un novelliere. Invece, questo omarello dallo sguardo melanconico che tutti chiamavano Pumidor, era l’amaro emblema di una miseria penosa, tetra, irreversibile, accettata però con grande dignità e coraggio. E il merito di questa rassegnazione andava proprio a quel fascio di giornali appoggiati sull’avambraccio, dono magnanimo della società, che gli conferiva la pomposa qualifica di “strillone”, un ruolo questo che se non gli consentiva di campare gli permetteva almeno di sopportare l’angoscia di un’esistenza disperata.
Tutti lo accoglievano con calore
Solo e povero in canna, Pumidor non aveva che da scialacquare la sua interminabile giornata. Terminato il giro del mattino, si rifugiava nelle osterie. A turno, una al giorno, le imbucava tutte e tutte lo accoglievano con affettuosa solidarietà, senza falsi pietismi. In questi asili di ubriaconi e di attaccabrighe, non privi però di genuino calore umano, una sedia, un piatto di minestra e un bicchiere di rosso si rimediavano sempre. C’era anche chi gli allungava un cartoccio con dentro le briciole del secondo pasto, quello che avrebbe consumato più tardi, quando si sarebbe ricordato di avere fame.


Non reagiva a chi lo sfotteva
Lì, ingabbiato nel nulla e coccolato dalla semioscurità della cantina, Pumidor attendeva con discrezione, sfogliava i giornali invenduti, li riordinava, li contava, li piegava. E così passavano le ore. Se qualcuno l’interpellava rispondeva, altrimenti taceva: l’iniziativa spettava agli altri. Spesso si addormentava.
Dall’osteria usciva verso le 18, per il secondo giro. Se ne andava come era entrato: in silenzio. Mai una parola di troppo, una reazione contro le ingiustizie sociali, uno sfogo rabbioso verso le cattiverie del mondo. Non reagiva agli insolenti che lo sfottevano e neanche alle birbonate dei ragazzi che per strada gli rifacevano il verso della sua vocina sottile: «Giornali!».
Anche Pumidor, come le persone che contano, entra nella cronaca giornalistica. Il privilegio della citazione l’ottiene subito dopo la Grande guerra. In quel periodo tra i quotidiani di partito si affermava l’Avanti!. In città era richiesto e lui lo teneva in bella mostra sull’avambraccio. Ma la politica, che agitava gli animi, consentiva a tutti di dire la loro e c’era anche chi non gradiva quella testata “sovversiva” che girava per la città.
«Pumidor, non vendere l’Avanti! – gli disse un tizio – è il giornale che pretende di cambiare l’orientamento sociale, quello che incita alla rivoluzione…». Sembrava proprio la burla di un buontempone. Che grosso guaio sarebbe stato per quel rudere di strillone, perdere tutto quello che possedeva! Che si trattasse, invece, di una vera, anche se assurda “intimidazione” lo dimostrava il fatto che Germinal, organo dei socialisti riminesi, il 6 settembre 1919 riportava in “cronaca” l’infelice intervento fatto da un noto «sgombraletti» del borgo San Giuliano. A detta degli storici, quelli, erano gli “anni ruggenti” e non era difficile conquistare qualche attimo di gloria sulle pagine della stampa. Con la “normalizzazione” fascista ritornò la calma. Pumidor, naturalmente, non se ne accorse: la sua vita continuò come prima, sempre uguale. Tutti i giorni lo stesso giro, la stessa miseria, la stessa solitudine, la stessa dignità. Fino all’11 febbraio 1929. Quel giorno la morte gli evitò l’ultima umiliazione, quella di rimanere inghiottito dal “nevone” che per settimane si sarebbe abbattuto su Rimini.

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