«Gli aggressori di nostro figlio sono stati condannati a 24 anni di reclusione, corrispondenti all’ergastolo aggravato nel sistema penale minorile. Ma le leggi che regolano l’esecuzione delle pene in Turchia non garantiscono che le condanne abbiano un effetto realmente deterrente. I condannati infatti scontano in carcere solo una parte della pena inflitta. A causa della legge sull’esecuzione penale, gli assassini di nostro figlio resteranno in prigione per 15 anni, gran parte dei quali in un carcere a regime aperto».
Si sfoga così lo chef misanese Andrea Minguzzi, padre di Mattia Ahmet, il 14enne accoltellato in un bazar di Kadikoy il 24 gennaio scorso e morto dopo due settimane di terapia intensiva. Parole arrivate a poche ore dalla deposizione delle motivazioni della sentenza che, il 21 ottobre, condannò i due minorenni esecutori materiali dell’omicidio ma assolse per insufficienza di prove gli altri due amici accusati di concorso in omicidio. Decisione sulla quale sia la Procura che la famiglia Minguzzi ha deciso di presentare ricorso. «Questi individui avevano agito insieme sia prima che dopo l’aggressione e avevano preso parte a tutti gli episodi di intimidazione precedenti all’attacco. In seguito, alla fermata dell’autobus, tutte e quattro si vantano tra loro raccontando come hanno ucciso nostro figlio e come lo hanno preso a calci dopo che era caduto a terra - precisa Minguzzi - il codice penale turco riconosce come colpevoli anche coloro che, pur non avendo eseguito materialmente il reato, vi abbiano partecipato o prestato aiuto. Nonostante tutte le prove video, il tribunale non ha però condiviso questa interpretazione. Decisione, fortemente criticata dall’opinione pubblica e da numerosi giuristi, che ora verrà riesaminata dalla Corte d’appello, detta in Turchia “istinaf”. È previsto che si pronunci nei prossimi mesi, ma speriamo confermi la condanna inflitta ai due assassini materiali e annulli l’assoluzione dei due complici, riconoscendone la colpevolezza e condannandoli a loro volta».
