"Mio padre morto a Ustica, lotteremo per trovare i responsabili"

Forlì

FORLI'. Venerdì 27 giugno 1980, ore 20.59: il DC-9 Itavia in volo da Bologna a Palermo, con a bordo 81 persone, scompare dai tracciati radar quando si trova a metà strada tra Ponza e Ustica. Fu abbattuto, ormai la dinamica è anche giudiziariamente assodata e tra i 77 passeggeri rimasti uccisi c’era anche Giacomo Filippi, imprenditore forlimpopolese di 47 anni. Aveva due figli, Mario e Stefano, all’epoca di 23 e 16 anni e quest’ultimo ricopre da tempo il ruolo di vice presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Ustica, uno dei più dolorosi e controversi drammi della storia italiana del dopoguerra.


Stefano, oggi ricorre il 40° anniversario della tragedia in cui perse la vita suo padre: cosa ricorda di quel giorno?
«Lo ricordo come un giorno normalissimo sino alle 20.59, ma fondamentalmente sino al mattino successivo perché sentimmo mio babbo al telefono quando ci informò del ritardo di due ore della partenza del volo dicendoci che ci avrebbe richiamato solo il giorno dopo. Non seguimmo i telegiornali e andammo a dormire senza riaccendere la televisione al mattino. A svegliarci alle 7.15 fu la citofonata di un amico di famiglia».
Fu lui a informarvi?
«Venne a casa per chiedere di mio padre e noi gli rispondemmo che era partito in areo da Bologna per la Sicilia dove doveva fermarsi due giorni per lavoro. Ci rispose che, allora, non sarebbe più tornato e ci spiegò. Ci crollò il mondo addosso. Io stesso sarei dovuto essere su quel DC-9».
Davvero? Perché?
«Avevamo un’azienda di famiglia in via Ravegnana, dove adesso c’è la palestra “Record”, di commercio all’ingrosso di carni fresche e surgelate: un’impresa che negli anni ’70 ebbe oltre 100 dipendenti. Mio babbo doveva concludere degli affari in Sicilia per la fornitura a catene alberghiere e siccome sin da bambino lo accompagnavo spesso nelle visite ai clienti, inizialmente sarei dovuto partire con lui. Doveva essere una “toccata e fuga”. Quando mi disse di rimanere a Forlì per dare una mano a mio fratello in azienda, mi arrabbiai moltissimo».


Che uomo era Giacomo Filippi?
«Era tutto per me e per la mia famiglia, il mio rapporto con lui è sempre stato molto intenso. Era una persona appassionata di tutto, anche di calcio e non solo a Forlimpopoli (che gli ha intitolato lo stadio ndr.), ma anche a Forlì dove per anni, come commissario, ricoprì la funzione di presidente dei “galletti”. E poi era un interista sfegatato: appena poteva, andava a Milano a vedere le partite».
Il suo corpo non fu mai ritrovato: un dramma nel dramma?
«Non solo il corpo, nulla di lui è stato rinvenuto. I miei nonni fecero edificare una piccola lapide al cimitero di Forlimpopoli, ma lui non c’è lì sotto e io, per questo, non ho mai avuto la forza di andarci. Elaborare il lutto, proprio per questo, è stato ancora più lungo e complesso, ma tantissime persone ci sono state vicine negli anni».
Vi siete accorti presto che qualcosa, nelle motivazioni ufficiali dell’incidente, non tornava?
«No, dopo il rifiuto subentrò un’aspra rassegnazione davanti a una supposta casualità. Accettammo ciò che ci veniva detto, ritenevamo compatibile la tesi del cedimento strutturale, mai avremmo pensato ad altri risvolti che iniziarono ad affiorare come probabilità, sempre più realistica, anni dopo. L’associazione dei familiari nacque solo nel 1988 per cercare la verità».
L’avete questa verità?
«Ormai sì, ma solo per la dinamica. Non conosciamo i responsabili e lotteremo finché non emergeranno. Sappiamo che fu abbattuto e quella notte c’era un’altra decina di arei militari in cielo di varie nazionalità e alcuni avevano il trasponder spento. Chi ha causato l’incidente è fuggito e non voleva fare sapere di trovarsi lì: però la targa si vede, dobbiamo scoprire a chi appartenesse».
Come si potrà arrivare alla sua identificazione?
«Adesso i Pm di Roma hanno fatto sequestrare il file audio della scatola nera del DC-9 nella quale si sente finalmente l’intera frase dei piloti, ossia “Guarda, cos’è?”. Va fatto periziare, ma il problema sono le rogatorie internazionali sempre disattese e allora dove non può arrivare la magistratura, deve arrivare qualcun altro».
Intende lo Stato?
«Certo. Solo se il Governo sarà davvero incisivo nel bussare alle porte degli altri Stati, supporterebbe davvero la magistratura e noi familiari nella definizione di una verità completa. Ha avuto 40 anni per farlo, ma sarebbe ancora in tempo».
La memoria di suo padre e delle altre 80 vittime, sarebbe allora onorata davvero?
«Sì, ma lo si può fare anche in altri modi: perpetuando la memoria attraverso la conoscenza da inculcare nei giovani. Ustica deve costituire un patrimonio civile collettivo, una pagina nella quale, per sempre, ci si riconoscerà come italiani».

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