Michele Marziani e l'editoria ai tempi del Covid

Cultura

Cinema e teatri chiusi, biblioteche e musei chiusi. I decreti di contrasto alla pandemia hanno bloccato l’accesso del pubblico ai luoghi della cultura. Se del mondo dello spettacolo (ovviamente in profonda crisi, non solo economica) molto si discute, resta un po’ in ombra l’universo dell’editoria, che si trova a gestire una situazione di grande difficoltà, anche se le librerie, per ora, restano aperte.

Lo scrittore riminese Michele Marziani, di cui nel gennaio di quest’anno è uscito l’ottavo romanzo, “Lo sciamano delle Alpi” (Bottega Errante Edizioni), ha visto cancellate in questi mesi le partecipazioni ai festival (che non si sono svolti) e oltre cinquanta presentazioni del libro tra appuntamenti in biblioteche, librerie e bar, oltre all’annullamento dei laboratori di scrittura a Rimini e Milano. Si è fortunatamente svolta, a metà ottobre a Tolmezzo, la cerimonia di consegna del Premio Leggimontagna dove il romanzo si è aggiudicato la terza posizione.

Marziani, cominciamo dai laboratori di scrittura. È di questi giorni la notizia che è stato sospeso il previsto “Scrivere nella città del gran bugiardo” (il riferimento è a Fellini) che lei avrebbe dovuto condurre in dicembre nelle sale della Biblioteca Gambalunga.

«Purtroppo, sia questo, sia il laboratorio che avrei dovuto condurre a Milano sono stati annullati. Ho considerato la possibilità di fare dei corsi on line, ma è una modalità che non mi piace e quindi l’ho scartata. Anche perché ho visto che la gente è molto impaurita e forse pensa ad altro, non si iscrive neanche ai corsi on line. C’è troppa incertezza. Per quanto mi riguarda, lavoro tantissimo per organizzare e preparare laboratori, presentazioni, incontri, e poi tutto salta. Non è facile».

Scrivere però è un’attività solitaria e quindi si può continuare a farla. O no?

«Certo, sto lavorando a vari progetti. Ma anche il mercato editoriale è in difficoltà. Le case editrici tendono a pubblicare solo quello che hanno già pronto e difficilmente si aprono a nuove proposte. Molto di quello che era previsto in uscita quest’anno viene spostato al 2021 o addirittura al 2022. Da autore, vedo negli editori un clima di attesa e di cambiamento, non necessariamente negativo».

Qual è la positività dei cambiamenti in corso?

«Il mercato editoriale negli scorsi decenni era in costante stato “bulimico”. In Italia si pubblicavano oltre 60mila titoli all’anno. Troppi. Questo numero eccessivo di uscite faceva sì che i libri restassero in libreria e in catalogo per tempi molto limitati, subito sostituiti da una massa di nuovi titoli. Se questo enorme flusso si ridimensiona, ci sarà più attenzione alla qualità, sia da parte degli editori che sceglieranno con più oculatezza, sia da parte degli autori che saranno costretti a produrre meno e meglio. È una speranza».

Dal suo osservatorio, nota altri cambiamenti?

«Recentemente Marco Zapparoli della casa editrice Marcos y Marcos e presidente di Adei (Associazione degli editori indipendenti), ha evidenziato come nel periodo del lockdown, nella scorsa primavera, ci sia stata una sorta di “chiamata alle armi” da parte di librai e lettori. I lettori si sono stretti attorno alle piccole librerie e hanno ricominciato a leggere. Da parte loro molte piccole librerie che in primavera erano chiuse si erano attivate con vendite on line e iniziative varie per andare incontro ai loro clienti. C’è stato un ritorno di grande affetto del lettore verso il proprio libraio di fiducia, verso il luogo fisico della libreria».

Nei momenti di crisi, leggere può essere un aiuto?

«La letteratura è comunque un focus sul mondo. Pensiamo a quanti libri importanti sono usciti durante la Seconda guerra mondiale e viene da chiedersi come sia stato possibile. La risposta è che ci voleva un grande coraggio e io credo che anche oggi ci voglia un grande coraggio. Da parte degli editori ma anche degli autori perché scrivere sotto le bombe non è così normale. La tentazione che hanno avuto in tanti è di parlare di quello che sta accadendo, ma siamo sicuri che la gente avrà voglia di leggere questo? Oppure, al contrario, ha senso raccontare una storia che si svolge, poniamo, all’inizio del Novecento per un lettore che è assalito dalla pandemia?».

Leggere non è anche un modo per uscire dalla propria vita e, in questo periodo, poter dimenticare il Covid immergendosi in un’altra storia?

«Sono d’accordo. Credo sia importante, per un autore, raccontare storie più che il mondo del Covid. Inoltre, tornando al paragone con i tempi di guerra, grandi libri come “Se questo è un uomo” di Primo Levi o “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern sono stati scritti dopo, al termine dei conflitti. Scrivere di quello che accade nel momento in cui accade è rischioso, la realtà può superare la fantasia, il racconto diventa subito vecchio».

Il distanziamento sociale che ci viene imposto per contrastare la pandemia, oltre a limitare i contatti con gli amici, ha cancellato le presentazioni di libri e gli incontri di promozione degli autori. Quali sono le conseguenze?

«Al di là della perdita economica per le mancate vendite, l’incontro fisico tra autori e lettori determina un confronto che non ha riscontri nel virtuale. Faccio un esempio. Quando sono andato a Tolmezzo a ritirare il Premio Leggimontagna ho incontrato gli scrittori che si erano posizionati nella terzina dei vincitori. Si tratta di Luca Brunoni e Sara Loffredi, autori che non conoscevo personalmente e di cui avevo letto, senza che mi convincessero troppo, le recensioni dei romanzi premiati. Dopo averli incontrati fisicamente e ascoltati durante la cerimonia, ho acquistato i loro romanzi e li ho letti. Li ho trovati bellissimi, meritavano davvero di essere premiati, ma se non avessi incontrato gli autori di persona non avrei comprato i loro libri. Gli incontri reali hanno conseguenze inaspettate. Anche il libro per essere scelto ha bisogno di rapporti interpersonali».

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