Coronavirus, medico imolese racconta l’esperienza in Portogallo

IMOLA. Martino Gliozzi ha 37 anni, è un medico di famiglia, come suo padre e come lo è stato anche suo nonno. Però da quando si è specializzato in cure primarie lui lavora lontano dall’Italia, in Portogallo, paese dove le statistiche pubblicate in questi giorni dalla stampa nazionale e internazionale hanno raccontato di come il virus abbia aggredito meno che altrove e la curva dei contagi non abbia registrato i picchi che invece ha toccato ad esempio in Italia. Il giovane medico imolese, che dal 2015 coordina la Unidade de Saúde Familiar di Baixa, il quartiere centrale, multietnico e più turistico di Lisbona, quella che qua chiameremmo “casa della salute”, un’idea del perché sia andata in questo modo se l’è fatta. E racconta di due modelli sanitari molto diversi, con al centro, in Portogallo, e invece più ai margini, in Italia, i medici di famiglia. «È vero che in Portogallo il contagio è arrivato dopo rispetto all’Italia e alla Spagna, e anche che il Portogallo ha solo 10 milioni di abitanti, ma credo che il nostro sistema di cure primarie ci abbia consentito di affrontare in modo più efficace la pandemia da Covid-19».
Partiamo dall’inizio, come c’è arrivato a Lisbona da Imola a coordinare l’Unità medica?
«Dopo aver frequentato il liceo scientifico tecnologico di Imola mi sono iscritto a Medicina a Bologna dove sono andato a vivere da solo durante gli studi. Finito il corso di laurea ho dato l’esame di Stato e mentre pensavo in che cosa mi sarei specializzato, sono andato in Mozambico con una organizzazione umanitaria. Il mio sogno era fare il medico in Africa, poi ho capito che forse da appena laureato era troppo presto. Nel 2005-2006 avevo fatto l’Erasmus in Portogallo, il che mi era servito per imparare la lingua e avevo capito che lì il tirocinio sarebbe stato più interessante e formativo che in Italia. C’è un modo diverso di trattare gli specializzandi, non so come sia oggi, ma all’epoca in Italia erano praticamente trasparenti e il risultato del percorso non era sempre meritocratico. Anche la medicina di famiglia, nella quale avevo poi deciso di specializzarmi, in Portogallo è più valorizzata che in Italia, tant’è che la specializzazione dura cinque anni, la formazione è nazionale, si acquisisce una competenza più vasta, e i medici di famiglia sono medici pubblici, come quelli di ospedale. Finita la specializzazione, a 32 anni, nel 2015 io sono diventato direttore dell’Unità. Anche questo non so se mi sarebbe successo in Italia, ma non credo».
Come opera l’unità che dirige e come ha affrontato l’epidemia?
«Il centro di cure primarie fa tutto quello che non fa l’ospedale, che però consiste in una gamma molto vasta di attività anche se non facciamo analisi. La mia unità è frequentata dai residenti del quartiere di Santa Maria Major, qui conosciuto come Baixa, che sono circa 15.000. L’equipe è composta da medici di famiglia, fisioterapisti, psicologi, operatori dei servizi sociali e dal personale amministrativo. E siamo tutti funzionari pubblici, ovvero dipendenti dello Stato, non liberi professionisti convenzionati come i medici di base in Italia. Sostanzialmente qui si fanno visite, e si seguono le persone per tutta quella che è la prevenzione, ma anche per le cure delle malattie croniche, oppure le gestanti, sono seguite da noi per tutta la gravidanza, in ospedale vanno solo a partorire».
Questo contatto diretto con il territorio secondo lei ha quindi consentito di tenere monitorata meglio la pandemia?
«Credo di sì, anche in virtù del fatto che ogni unità conosce ogni strada e vicolo di quel territorio preciso e dove abita ogni singolo paziente nella stessa area, quindi il sistema sanitario può anche muoversi con maggiore efficacia avendo ben presenta una mappa dei pazienti, sarebbe stato più complesso ragionare non per aree omogenee anche all’interno della stessa città, e in Italia questo avviene, perché i medici di base i cittadini li scelgono liberamente indipendentemente dal loro quartiere di residenza. Poi ad esempio per mascherine e presidi medici, noi li abbiamo avuti da subito, tutti quelli che ci servivano e non abbiamo nemmeno dovuto preoccuparci di come procurarceli, perché ce li ha dati lo Stato, e non devo preoccuparmi se finiscono, perché mi riforniscono di nuovo. So che in Italia invece non è andata così, e me lo dicono anche amici e colleghi che lavorano lì. Certo la gestione di tutti i materiali è centralizzata , ma in una situazione di pandemia questo può essere meglio. Inoltre sanità pubblica e cure primarie fanno parte dello stesso organo, anche questo aiuta in una situazione come questa».
Certo il fattore tempo, il ritardo con cui lì è arrivato il virus, può avere aiutato, ma che scelte ha fatto il Portogallo sul lockdown e come hanno reagito le persone?
«Certo sapevamo già qualche cosa in più di questo virus, comunque il Portogallo ha preso una decisione fermo dall’inizio, con protocolli condivisi fissati dallo Stato. Qui il lockdown è scattato, ma non con gli stessi metodi di sanzione adottati in Italia. Credo che qui le persone si fidino di più delle istituzioni e quindi non ce n’è stato bisogno. Il confinamento è più tranquillo, droni ed elicotteri qua proprio non li ho visti. Quando il governo dice che è meglio stare a casa le persone ci stanno, il messaggio è diverso non si minaccia di sanzione».
Come conviveremo, finita l’emergenza, con questo virus?
«A livello di medicina sia pazienti che professionisti hanno cominciato a usare di più metodi telematici, penso che in parte cambierà il modo di lavorare, anche le persone accetteranno di più certi tipi di rapporti. A livello culturale, se per mesi non potremo andare in spiaggia, a un concerto, a messa, al ristorante cambieremo abitudini. La parte positiva di questa epidemia è che ha obbligato tutti a guardare dentro se stessi a pensare. Forse sarà un mondo meno inquinato e meno consumista, io lo spero».

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