Max Poggi, alta cucina che nasce in campagna e dalla tradizione

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Definisce la sua cucina “di campagna”, ma il termine non inganni. E non perché la porta in tavola a pochi minuti dalla grande città, Bologna, ma soprattutto perché è frutto di un lavoro di ricerca profondo e grande tecnica. Massimiliano Poggi, chef bolognese, è il nuovo presidente dell’associazione Chef to chef, e da sempre tiene insieme le due anime, tradizionale e alta, della ristorazione felsinea. Lo fa dirigendo tre locali: il ristorante Massimiliano Poggi Cucina, che porta dunque il suo nome, a Trebbo di Reno, ingredienti di campagna ed eleganza di un grande ristorante contemporaneo, il tradizionale Cambio in zona fiera, l’informale Osteria Vicolo Colombina.

Tre filosofie diverse nell’approccio, ma non nella sostanza di fondo.

«La base è comune: il rispetto quasi integralista della tradizione bolognese. Al Cambio la declinazione è più istituzionale con un approccio di ospitalità più elevato, la Colombina ha i connotati dell’osteria moderna, meno formale, a Trebbo di Reno applico un concetto un po’ più ampio della mia cucina di campagna ed è dove mi esprimo in maniera più personale».

Per “cucina di campagna” cosa intende?

«Esplorare concetti di sostenibilità partendo dalla nostra cultura gastronomica che è rurale: animali da cortile, cacciagione, bovini a fine carriera, perché quelli giovani dovevano lavorare: il bue doveva tirare l’aratro e la mucca fare il latte. Se la cultura gastronomica francese partiva da prodotti di nicchia, difficili da reperire e costosi, e la cucina professionale si faceva nelle case della nobiltà, l’Italia basa la sua cultura gastronomica su una cucina di risparmio e di opportunità. Come si fa? Ponendo grande cura nella scelta dei fornitori che siano etici, che abbiano cioè a cuore la filiera. Non uso ingredienti esotici per dare forza al mio concetto di cuoco, io faccio quello che c’è quando c’è, analizzo la campagna intorno a me e limito il mio paniere all’interno di questa filosofia che mi sono dato. E non è poi così poca la varietà di prodotti fra cui sui può scegliere intorno a noi, dobbiamo semplicemente... scegliere. Ed è molto stimolate, ad esempio posso non usare pesci di mare e guardare il mondo ittico più vicino. Anche a Bologna si è sempre mangiato il pesce, di acqua dolce però, salmerino, trote. Quindi ok alla bottarga, ma di trota. Fra l’altro nel fiume o negli allevamenti di acqua dolce si lavora tendenzialmente più in piccolo senza lo sfruttamento di ambiente e animali, come avviene per molta pesca in mare».

Lei dunque non ha remore nell’utilizzare il termine tradizione.

«Certo che no. Lo dico sempre anche ai ragazzi con cui lavoro o quelli a cui insegno: la tradizione è passata attraverso secoli di influenze di cuochi, casalinghe, appassionati che hanno apportato le modifiche che hanno consentito a certi piatti di arrivare fino a noi. Per mettere mano alla cucina tradizionale secondo me bisogna quindi avere dei requisiti molto importanti. Non confondiamo poi l’aggettivo semplice con tradizionale, la tradizione è tutto fuorché semplice. Oggi applichiamo le tecnologie e le conoscenze che abbiano al piatto tradizionale. L’approccio moderno alla cucina tradizionale consente di utilizzare nuove conoscenze tecniche e strumentazioni per ottenere un risultato migliore. I brodi e i tortellini che facciamo oggi dal punto di vista tecnico hanno migliorato la tradizione, ma il sapore deve essere consacrato e non dissacrato per il protagonismo dell’esecutore. Un piccolo esempio: quando le casalinghe fanno ragù cominciano dal soffritto poi aggiungono la carne. Ma quando hai soffritto la verdura e aggiungi la carne, quando anche questa sarà rosolata, la verdura sarà sfinita e quindi il suo apporto principale al ragù, gli aromi, si saranno persi in gran parte. Quindi io prima rosolo la carne poi insaporisco con le verdure e così le valorizzo. Diversamente sarebbe dire: poiché sono figo nel ragù non ci metto la cipolla ma il topinambur, e io ti dico che la cipolla nel ragù non è che c’è caduta... ma è una componente importante. Se metto il cuoco al centro della preparazione perdo il mio obiettivo che è fare delle cose buone».

Questa sua versatilità certamente l’aiuta nel ruolo di presidente per una associazione che unisce tanti cuochi differenti.

«Siamo diversi ma siamo accomunati, anche nelle diverse categorie, dal fatto che tutti rappresentiamo il meglio dei nostri territori, dal tristellato all’ osteria di paese. Siamo la vetrina dell’eccellenza del territorio sia ristorativo che di produzione, e la Regione ci accredita il ruolo di vetrina di filiera per comunicare tutto il meglio che l’Emilia-Romagna offre dal punto di vista gastronomico. Siamo esclusivi, ma perché abbiamo responsabilità importanti ed è un impegno che sento. Valutiamo comunque sempre nuovi ingressi, oggi ci ritroviamo mediamente con un’ età alta e ci stiamo interrogando se sia perché mancano giovani di qualità o piuttosto se il problema è nostro, e cioè che essendo tanti e affermati spaventiamo i più giovani a entrare. Insomma stiamo cercando con molta attenzione nuovi talenti che sicuramente in regione ci sono e non hanno ancora avuto spazio».

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