Maturo: ci ha lasciato un sogno, ma anche un segno

Non posso dire di avere conosciuto bene Paolo Fabbri, tuttavia lo conoscevo da sempre. Sin da piccolo sentivo il suo nome echeggiare in casa, mio padre ne era un grande estimatore e ci teneva a dire che era un suo amico. Quando poi negli anni Ottanta arrivai a Bologna a studiare, dopo poco mi accorsi che presso i miei amici di Filosofia e del Dams era un cult, o come si dice oggi, una celebrity.

Purtroppo, in quegli anni non vi insegnava e quindi non riuscii a frequentare i suoi corsi. Durante i fine settimana tornavo a Rimini per lavorare al Paradiso, e Paolo era fratello di Gianni, patron del rimpianto locale. E così là riuscii a parlargli una volta o due, o meglio a balbettare qualcosa sui miei claudicanti interessi semiotici (infatti poi studiai sociologia). Diventai presto una sorta di sua ‘groupie’. Dovunque nelle vicinanze tenesse una conferenza, là mi manifestavo e lo ascoltavo ammirato. Fu a una sua conferenza su Orwell, mi pare in una delle serate filosofiche organizzate a Misano, che feci il mio primo intervento pubblico – piuttosto disastroso - e però Paolo Fabbri fu molto comprensivo e disponibile. Con i miei amici e amiche dell’università avevo acquistato un certo status visto che ero riminese e mi spacciavo per semiologo. In più, lavoravo nel locale di famiglia e conoscevo il fratello e quindi nelle cene vinose e intellettuali bolognesi dei primi anni Novanta facevo la mia figura. A Bologna lo si intravedeva Bar del Museo con Omar Calabrese, Roberto Grandi e ovviamente Umberto Eco. Di persona lo incontravo poco – non c’era you tube e neppure internet allora - ma lo vedevo spesso nelle note bibliografiche. Si manifestava all’improvviso in una nota a piè di pagina di un libro ponderoso di Luhmann in cui veniva ringraziato per avergli fatto capire un concetto o in un riferimento di Bruno Latour che gli si dichiarava debitore di un’idea. Sappiamo poi che Italo Calvino fu profondamento influenzato da una conferenza di un giovanissimo Paolo Fabbri.
Nel 1992 Paolo Fabbri ebbe l’incarico che più gli si addiceva al mondo: Direttore dell’Istituto di Cultura italiana a Parigi. Visto che aveva studiato e insegnato là negli anni Sessanta non c’era posto che potesse essergli più congeniale. Lo vidi al lavoro a Parigi e indubbiamente sembrava che tutto l’Istituto di Cultura fosse stato concepito e progettato per ospitare, un giorno, il nostro intellettuale più sofisticato, rarefatto e disponibile. Ha fatto bene la nostra amministrazione a insignirlo del Sigismondo d’oro: un ambasciatore della cultura italiana, ma anche un agente segreto della riminesità più elaborata e affascinante. Paolo Fabbri era un semiologo: rifletteva e teorizzava sui segni. E accendeva i sogni dei giovani. Tutti sognavamo di avere un milionesimo di ‘paolofabbrietà’ quando compivamo i primi passi all’università, facevamo le prime lezioni o la nostra prima conferenza. Un sogno, anzi un segno, che tutti i Maestri vorrebbero lasciare.

*Professore Associato di Sociologia - Università di Bologna

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