Marta e Carlotta il lato femminile del Barolo Rinaldi

In cantina si sente semplicemente a casa. Regista sensibile di quel mondo ovattato fatto di profumi e penombre, Marta Rinaldi travasa, pigia, supervisiona, pulisce le botti. Guardarla all’opera è uno spettacolo, gustare i vini che realizza insieme alla sorella Carlotta (capo indiscusso in vigna) una prelibatezza per il palato. Papà Giuseppe, mancato a settembre del 2018, era un simbolo del Barolo classico. Un po’ vignaiolo e un po’ filosofo, burbero quanto basta, appassionato dei suoi sigari e delle motociclette, oltre che delle sue adorate api, era un uomo toccato dal genio: quello di saper lavorare l’uva della sua terra come pochi altri. Per alcuni un’eredità tanto ingombrante potrebbe risultare quasi insopportabile da gestire, ma non per Marta e Carlotta, a cui Beppe ha insegnato ogni cosa. E oggi dall’azienda “Giuseppe Rinaldi” escono vini che sono la somma di due pensieri, quello del “vecchio” papà e quello delle figlie che hanno in mano le redini.

La conduzione dei vigneti e la vinificazione interpretano le filosofie tradizionaliste di Langa, con riguardo alla naturalità del prodotto e al rispetto dei caratteri varietali dei vitigni coltivati. A lunghe macerazioni sulle bucce in tini tronco-conici aperti, seguono affinamenti in botte grande, di rovere di Slavonia. A inizio ‘800, Battista Rinaldi era coltivatore di alcune vigne del Feudo dei Marchesi Falletti di Barolo. In seguito, divenne proprietario coltivatore e venditore dell’uva prodotta. Successivamente, con i figli, si convertì a vinificatore e imbottigliatore. La stessa tradizione aziendale, di carattere e dimensioni artigianali, era continuata con Giuseppe ed è poi stata tramandata alle attuali generazioni. L’azienda produce Barolo per circa il 60% (vigneti Brunate, Le Coste, Cannubi-San Lorenzo, Ravera) e per il rimanente vini piemontesi quali Dolcetto d’Alba, Barbera d’Alba, Nebbiolo, Freisa delle Langhe, Ruchè.

Due donne

Nella “nuova” storia di Rinaldi c’è però qualcosa di più. Qualcosa che va oltre il vino e che racconta dell’abbattimento di una barriera fatta di pregiudizi che, una volta caduti, si scopre quanto fossero in realtà insensati. Si dice che il nonno di Marta e Carlotta, quando seppe che non ci sarebbero stati eredi maschi, fosse effettivamente disperato. Il lavoro in vigna e in cantina era roba da uomini e l’unica soluzione, anche se a malincuore, sarebbe stato vendere tutto. Quando lo scetticismo del nonno si incontrano con l’intelligenza di papà Beppe, però, accade quello che in italiano si chiama lungimiranza. E quello che nessuno avrebbe mai potuto immaginare comincia a mettere radici. Marta, la più grande, si iscrive alla prestigiosa scuola enologica di Alba e poi all’università di viticoltura ed enologia. Carlotta, qualche anno dopo, sceglie la strada di agraria, per poi andare a fare esperienza alla corte dei grandi vignaioli biologici francesi. Oggi sono ogni giorno spalla a spalla tra i dolci pendii di Langa e custodi raffinate di dieci ettari di vigna da cui emergono perle enologiche dal numero limitatissimo di bottiglie. E la verità è che hanno gettato una luce di modernità su idee ormai polverose.

L’eredità

E Beppe Rinaldi? La sua eredità non ha subito stravolgimenti, ma anzi si è arricchita di nuove sfumature e lui stesso, quando era ancora in vita, era ben contento che fossero le due figlie a mandare avanti ogni cosa. Lui, uno degli ultimi dei Mohicani delle Langhe, insieme agli altri puristi come Cappellano e Mascarello, rivive nel cuore, nella mente e soprattutto nelle mani delle due giovani ragazze del Barolo. Perché essere produttori di vino vuol dire anche questo: essere produttori di ricordi e di momenti; essere custodi di un modo di fare le cose che per alcuni è strano e bizzarro, per altri semplicemente «fare il vino come lo facevano mio padre e mio nonno».

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