Oriana Maroni: "Gambalunga forziere della storia di Rimini"

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D opo 34 anni alle dipendenze del Comune, il 31 marzo scorso è stato l’ultimo giorno di lavoro di Oriana Maroni quale direttrice della Biblioteca Gambalunga di Rimini. Chi meglio di lei, dunque, per parlare di presente e futuro di questa prestigiosa istituzione e dei progetti per fare di Rimini la capitale italiana della cultura?

Oriana, che cosa rappresenta la Biblioteca Gambalunga nel panorama delle biblioteche storiche italiane, e che cosa invece rappresenta per Rimini?

«Il nostro è un Paese assai ricco di biblioteche; i loro patrimoni librari e documentari, spesso splendidi e rari, testimoniano la vastità e pluralità della nostra cultura, raccontano i secoli che hanno attraversato. La Biblioteca civica Gambalunga nasce nel 1619, in quello che è stato definito il grande secolo delle biblioteche italiane. Spesso si citano quali esempi di prime biblioteche “pubbliche”: la Biblioteca Ambrosiana a Milano (1609), e la Biblioteca Angelica (1614) a Roma, ma in realtà si tratta di biblioteche cardinalizie, nate con l’intento apologetico di sostegno e propaganda della fede cattolica. Vero è che la stessa Gambalunghiana è nata nel solco dei numerosi esempi in cui il mecenatismo, il collezionismo, la fondazione di una biblioteca esprimevano una volontà di rappresentazione e distinzione, ma la sua originalità, come alcuni studi hanno evidenziato (Piero Meldini, Paola Delbianco), è nel suo essere stata fondata da un laico che coniugò la destinazione pubblica alla gestione civica».

Ci spieghi meglio.

«La biblioteca del mecenate riminese è la raccolta di un uomo colto, “protettore delle lettere”, che con grande profusione di mezzi mise insieme una biblioteca di duemila libri, per il tempo rilevante, se si pensa che la biblioteca di don Ferrante, formata da poco meno di trecento libri, veniva definita da Manzoni “considerabile”. Da quel nucleo originario si è formato, per successive stratificazioni, un patrimonio di grande ricchezza, varietà e valore culturale. Difficile sintetizzare in poche righe la vastità delle sue collezioni di libri a stampa, manoscritti e codici miniati, periodici letterari e scientifici, frutto delle cure e delle ricerche di grandi bibliotecari, nonché di generose donazioni. I suoi codici, un corpus di 1350 esemplari, cartacei e membranacei, ma anche formati da supporti meno comuni, quali il papiro, la carta di riso e le foglie di palma, testimoniano le svariate scritture latine, la scrittura greca, ebraica, araba, armena, etiopica e tamil. Per qualità e quantità, significativo è il nucleo dei codici miniati, in cui sono rappresentate quasi tutte le principali “scuole”».

Qualche esemplare particolarmente pregiato?

«Per necessaria brevità, si segnalano le preziose testimonianze manoscritte dell’età Malatestiana: dall'autografo dell' Hesperis di Basinio da Parma, con la nota manoscritta di Roberto Valturio, al recente importante deposito del manoscritto Astronomicon, dello stesso Basinio, proveniente dalle Collezioni d’arte di Crédit Agricole Italia, e giunto anche grazie all’interessamento del notaio Fernando Maria Pelliccioni. I due manoscritti appartenuti ai Malatesti, di cui serbano i temi araldici: la Regalis historia e il De civitate Dei. Entrambi sono giunti per dono o intercessione del cardinale Giuseppe Garampi, prefetto degli Archivi vaticani e nunzio pontificio, a cui si deve anche la donazione della Divina Commedia, trascritta tra il 1392 e il 1394 dal gentiluomo e magistrato veneziano Giacomo Gradenigo. Garampi, oltre alle donazioni fatte in vita, alla sua morte, nel 1792, la arricchì con un lascito che comprende fra l’altro 86 codici raccolti in trent'anni di viaggi e ricerche».

Un uomo generoso, il cardinale.

«Come è stato egregiamente studiato da Paola Delbianco e precedentemente da Angelo Turchini, si deve al Garampi la partecipazione della Gambalunghiana alla svolta culturale e scientifica del Settecento, al rinnovamento apportato da Jano Planco e dalla sua scuola, che spezzò il lungo e soffocante isolamento provinciale di Rimini, e si tradusse nella straordinaria raccolta di opere scientifiche conservate dalla Gambalunga, la cui consultazione è fondamentale per gli studi sul Settecento europeo».

E cos’altro c’è di prezioso?

«Perlopiù provenienti dalle soppressioni delle congregazioni religiose sono i 382 incunaboli. Considerevole è la raccolta di periodici letterari e scientifici nazionali e internazionali, in cui troviamo la collezione quasi completa del Rimino, il cui primo numero uscì il 10 agosto 1660, fino ai fogli balneari, parte integrante del genius loci riminese. Nei suoi magazzini secolari si trovano le piante e gli statuti della città, diari, biblioteche e archivi privati sette/novecenteschi, che documentano la storia cittadina, fra cui sono almeno da citare la raccolta di Zefirino Gambetti, i fondi Paulucci, Zanotti, Rosa, Tonini, Massera, Lettimi-Francolini e Mattei Gentili, la biblioteca e l’archivio di Augusto Campana. Imponente è la banca di immagini raccolta nell’Archivio fotografico: un corpus di oltre un milione di fotografie su Rimini e il suo territorio, stratificatosi in oltre un secolo. Per Rimini la Gambalunga è il forziere della sua storia».

Quali sono i punti di forza della Gambalunga, e quali invece i suoi punti deboli?

«Individuerei uno dei suoi principali punti di forza nel suo essere sia una biblioteca tradizionale che ipermoderna, ovvero non legata a un unico modello, ma di essere al tempo stesso un luogo di studio, silenzio e concentrazione, un archivio delle memorie cittadine, ma anche un luogo di produzione dei contenuti, un contesto creativo e relazionale in cui coltivare il piacere di leggere, conversare, creare. La competenza del suo personale, la sua organizzazione sistemica (la Gambalunga aderisce alla Rete bibliotecaria di Romagna e San Marino), la digitalizzazione di parte dei suoi cataloghi storici, i suoi cataloghi on line, la conversione digitale di alcuni servizi, hanno messo la biblioteca al riparo dal pericolo di marginalizzazione culturale e sociale connesso alla contemporaneità digitale, che ha imposto un nuovo paradigma della conoscenza, fondato sui motori di ricerca, e sul criterio selettivo della tripla A: “Algorithms. Analytics. Advertising”».

Che cosa andrebbe fatto con più urgenza?

«Direi molto. A partire dalla constatazione che non ci può essere politica culturale senza un’ipotesi per la biblioteca, che faccia i conti con la mutazione tecnologica, gnoseologica e antropologica in cui è immersa. È necessario introdurre un’idea di biblioteca come spazio di riferimento nella vita quotidiana dei cittadini, ovvero parte della città, dei suoi processi di trasformazione, e in rete con l’intero campo dei servizi culturali. Questo significa reversibilità e flessibilità degli spazi, intese come traduzione logistica e architettonica dell’idea di biblioteca “aperta”. La biblioteca necessita per questo di investimenti importanti, per intervenire in misura rilevante sulla rifunzionalizzazione dei suoi spazi e sostenere la sua innovazione tecnologica, per farne una piattaforma della conoscenza tecnologicamente avanzata. Come ha scritto Walter Cronkite, “quale che sia il costo delle nostre biblioteche, il prezzo è sempre più basso rispetto a quello di una nazione ignorante”».

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