Mario Perrotta a Cattolica con il suo bacio a Ligabue

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«Un bès. Dam un bès, uno solo! Che un giorno diventerà tutto splendido. Per me e per voi». Parte da questa richiesta di affetto lo spettacolo “Un bès. Antonio Ligabue” che questa sera è portato in scena da Mario Perrotta al salone Snaporaz di Cattolica alle 21.15. La messinscena ha ricevuto il premio Ubu 2013 per il migliore attore e il premio Hystrio 2014 come migliore spettacolo dell’anno, indaga la lacerazione di un’anima consapevole di essere un rifiuto della società e al contempo un artista, il suo stare al margine: laddove un bacio, è solo un sogno. Mario Perrotta riflette sulla solitudine dell’uomo Ligabue, sul suo stare oltre il confine.

Perrotta, come si è avvicinato a Ligabue?

«Mi ci sono avvicinato perché avevo voglia di parlare di diversità. Ligabue era diverso per eccellenza se si pensa a come abbia vissuto trasportato dalla Svizzera fino all’Emilia senza conoscere una parola di italiano e sia rimasto isolato da tutti per 30 anni. Quando ho iniziato a lavorarci avevo un po’ i nervi scoperti sulla diversità, si sentivano notizie da cui trapelava forte razzismo e così ho deciso di parlare di lui».

In che modo ha approfondito la sua figura?

«Ho iniziato la mia ricerca andando sul territorio, a Gualtieri e Guastalla (in provincia di Reggio Emilia), negli archivi dei manicomi in cui era stato ricoverato sia in Italia che in Svizzera a partire dai suoi 13 anni. Poi ho ricostruito la sua storia attraverso gli occhi di chi lo ha conosciuto. Quelli che all’epoca erano bambini e lo prendevano in giro, oggi mi hanno raccontato tante cose utili a rendere giustizia alla sua figura».

Ultimamente Ligabue ha avuto grande risalto anche grazie al cinema con il film “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti a cui ha collaborato anche lei.

«Sì, sono stato felice che Giorgio abbia visto lo spettacolo e, dato che stava pensando da tempo a un film su Ligabue, abbia deciso di farlo. Ci siamo confrontati a lungo sulla sua storia e ho avuto anche una parte nel film interpretando il regista Rai che scoprì l’artista (un po’ quello che ho fatto a livello di regia teatrale) ed è stato un grande piacere. Con questo spettacolo ho fatto ciò che la cultura deve fare, cioè accendere i riflettori su chi rischia di essere dimenticato. Le sue opere, scambiate a volte con i suoi concittadini per un pasto caldo, sono state ritrovate ovunque con vari utilizzi: come tappabuchi nei capanni, come sgabelli per mungere le mucche, addirittura una volta un uomo fece dipingere il camion del circo per poi scartavetrarlo. Ho raccontato prima di tutto l’uomo e la sua solitudine, a partire dalla richiesta di quel bacio che non ha mai ricevuto».

In scena accenna anche a segni grafici?

«Sì, realizzo dei disegni a carboncino. Non mi sarei mai azzardato a imbattermi nel colore, che era uno dei suoi punti di forza, e anche se all’inizio mi sembrava difficile conciliare la recitazione con il disegno, poi ci sono riuscito aggiungendo un tocco in più alla performance».

Info: www.teatrodellaregina.it

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