Marco Martinelli porta "Fedeli d'amore" al cinema

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Un nuovo film, il quinto in poco più di quattro anni, a firma di Marco Martinelli, che ha segnato la storia dell’arte scenica grazie a una drammaturgia di impronta poetico-antropologica attraverso il Teatro delle Albe di cui, con Ermanna Montanari, è fondatore e anima. Titolo: “Fedeli d’amore” come lo spettacolo a cui è ispirato (poema scenico composto di 7 quadri attorno a Dante e al nostro presente che è valso a Ermanna Montanari il suo settimo Premio Ubu), sempre interpretato da Montanari e musiche di Luigi Ceccarelli, con Sergio Scarlatella, Luigi Dadina, cittadini e adolescenti di Ravenna.

Sarà presentato in prima nazionale domani a Milano (ore 18, cinema Beltrade) al Filmaker festival 2021, festival-laboratorio aperto a nuove forme di cinema e allo scambio tra esperienze di discipline diverse; non a caso il film di Martinelli è inserito nella sezione “Teatro sconfinato” dedicato all’intersezione tra teatro e cinema. E sono proprio le parole del regista a svelare questa intersezione.

Martinelli, lei alterna la regia cinematografica a quella teatrale. Come costruisce la declinazione filmica dell’opera scenica?

«Il punto iniziale è in negativo. Si toglie e si taglia. Punto fermo di partenza: il teatro non va filmato. Ciò che è stato messo in scena viene completamente attraversato, fatto a pezzi e rimontato, è un rito dionisiaco di smembramento! Il senso è riscriverlo con un alfabeto diverso. Teatro e cinema sono arti sorelle ma per passare da una all’altra prima li devi separare, poi reinventare un mondo».

La pienezza e la potenza scenica dello spettacolo “Fedeli d’amore” è tale da far pensare che sia difficile trovare linguaggi narrativi altri.

«Non è difficile. Quando vedi il salto vedi la scrittura, intuisci che essa può essere portata su un altro linguaggio, è come quando il testo lo porti da un libro. Certo questa scintilla non scatta ogni volta».

Come passare dal palco dove tutto è ricreato, a sfondi reali?

«La riscrittura comporta delle scelte tra cui le ambientazioni che ho portato all’aria aperta, sulla spiaggia, nelle valli e tra le pietre medievali, risalenti al tempo di Dante, del molino Lovatelli nel cuore di Ravenna».

Quale dei 7 quadri del poema scenico è stato più facile riscrivere?

«Nessuno è stato più immediato, sono fluiti tutti allo stesso modo. Niente è mai facile, però per me è entusiasmante vedere che da una lingua ti porti in un’altra, è come una traduzione che tramanda i segni precedenti nel momento in cui li tradisci, però è un tradimento fecondo, che crea un’altra opera».

Cosa è cambiato nel film rispetto alla drammaturgia teatrale?

«Il testo è rimasto quello, era una gabbia forte ma è stato rimontato come accade quando si deve dare visione a un concerto, Ermanna dà figura a uno dei 7 quadri, quello dell’invettiva “L’Italia che scalcia se stessa” che diventa un’azione di action painting, lei è un artista nel suo atelier che accompagna le parole con il gesto furioso di imbrattare di colori le carte geografiche dell’Italia sventurata».

Nelle note di regia evoca la croce, afferma che vita e scrittura si intersecano come nella croce e noi siamo inchiodati alle assi della politica e dell’anima.

«Questo concetto della croce è la mia vita nell’arte da quando avevo 20 anni, da quando mi sono sposato con Ermanna e abbiamo iniziato a fare teatro. È un nodo filosofico, teologico che regge tutto ciò che facciamo: il teatro, la scrittura, il cinema».

Lei definisce lo schermo «la soglia che unisce i due mondi». Può spiegare cosa sta a monte di questa definizione?

«Il cinema ha la sua partenza dall’ombra, viene dai giochi d’ombra. E come per i primi uomini l’ombra è l’anima invisibile. Noi oggi siamo abituati a non stupirci più del mistero, invece dovremmo essere attenti come lo erano i nostri antenati per continuare a coglierne i segni».

Il teatro e il cinema ci rimettono in connessione?

«Il teatro e certo cinema sono sentimenti che ci indicano l’orizzonte dove l’oscuro e il certo si incontrano. Noi siamo dentro un grande orizzonte di mistero, gli scienziati dicono che solo il 5% della materia è conosciuto, cosa da affrontare con umiltà».

Nel volume che Laura Mariani ha dedicato al suo cinema cita la capacità di creare contesti che rilanciano le relazioni. Anche nei film segue la sua direzione di «lavorare con i molti»?

«Assolutamente sì, è il nostro modo di essere. Non cambia nulla, cambiano le tecniche, gli strumenti, ma la relazione è la base del lavoro. Essere nella serenità, nella gioia, non scaricare ansia e paure, chi lavora con noi e viene da esperienze in altri set ci dice che si respira un’aria completamente nuova, io rispondo: queste sono le Albe».

E dopo Milano, prima internazionale a Dubai e dal 13 gennaio a Ravenna per una settimana.

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