Marco Martinelli e la non-scuola sbarcano in Francia

Spettacoli

Arriva in Francia il libro del drammaturgo romagnolo Marco Martinelli “Aristofane a Scampia. Come far amare i classici agli adolescenti con la non-scuola” (Ponte alle grazie). Il prestigioso editore parigino Actes Sud ha pubblicato “Aristophane dans les banileues. Pratiques de la non-école”, nella traduzione di Laurence Van Goethem, per raccontare l’esperienza formativa che Marco Martinelli porta avanti da trent’anni con gli adolescenti di Ravenna e non solo.

Cosa c’è di nuovo in questa traduzione?

«È proprio un’edizione per il mercato francese. L’idea è stata della nostra traduttrice, Laurence Van Goethem, che da anni traduce sia i libri miei che di Ermanna Montanari in Belgio. Non eravamo mai arrivati in Francia, quindi la sua idea è stata di rivolgersi ad Actes Sud, che è la più prestigiosa delle case editrici di teatro a Parigi. Con gran piacere nostro hanno accettato e Laurence mi ha chiesto di lavorare un po’ con lei a pensare a un’edizione per la Francia. Per esempio, un capitolo che c’era nell’originale italiano è saltato e al posto di quello, Laurence ha voluto un capitolo sull’esperienza di Kibera, a Nairobi. Inoltre all’interno del volume c’è anche tutto il “noboalfabeto”, quello che abbiamo scritto io e Ermanna vent’anni fa e che è una specie di manuale poetico della non-scuola. Quindi era proprio pensato per presentare questa esperienza in Francia, perché la non-scuola è stata da molte parti nel mondo ma in Francia no».

Può essere questo un approccio per portare la non-scuola in Francia?

«Credo di sì. Il libro è uscito a metà dicembre e da allora ho fatto diverse interviste con critici teatrali e giornalisti francesi e tutti auspicavano l’arrivo della non-scuola in Francia. Mi sembra che questo libro sia una navicella vedetta».

Che cos’è che fa funzionare la non-scuola in posti così diversi e con ragazzi così diversi, da Ravenna a Kibera, da Scampia a New York?

«È il fatto che, per quanto diversi siano i ragazzi, perché ovviamente le lingue cambiano e cambiano anche le classi sociali di provenienza (un conto è lavorare con i ragazzi “bene” di New York e un conto è lavorare in una situazione come quella di Kibera, o in Senegal o a Scampia), in fondo, l’anima profonda degli adolescenti è la stessa in tutto il mondo; e bisogna riuscire ad aprire quella porta attraverso cui poter veramente dialogare con loro, ogni volta essendo attenti alle loro esperienze, ai loro linguaggi. A Chicago abbiamo utilizzato il rap per mettere in vita l’Ubu di Alfred Jarry, in altri contesti abbiamo utilizzato i linguaggi, le musiche, i canti di altri adolescenti, ma l’importante è sempre quella porta aperta, riuscire a instaurare un dialogo che non è “arriva il regista e ti vuole mettere in scena” ma “arriva una persona che con te vuole provare a scoprire una parte profonda della tua anima”. E il teatro è lo strumento per questa scoperta. E in questo senso davvero non ci sono confini».

E cosa ha imparato da questa esperienza con ragazzi di tutto il mondo?

«Quello che ho imparato, anzi quello che imparo tutte le volte, è proprio un andare sempre alle sorgenti della nostra arte. Perché il pericolo grande, per ogni artista, è quello di perdersi, a un certo punto, nella routine, nel cascare sempre sulle cosa che si sanno, sulle cose che funzionano. Invece il rapporto con gli adolescenti ti mette sempre a rischio e mette sempre a rischio quello che è il tuo sapere. E quindi è davvero ogni volta un ricominciare insieme a loro e leggere una pagina di Aristofane come se fosse la prima volta».

Come rimangono i rapporti con i ragazzi che hanno frequentato la non-scuola?

«Non ci basta fare una bella esperienza, fare uno spettacolo, dei bei fuochi d’artificio: tutte le volte cerchiamo di creare dei legami che possano avere una durata nel tempo. Oggi la responsabile della non-scuola a livello nazionale è Laura Redaelli e ha una sorta di ragnatela di esperienze, di cui lei è il terminale, che vanno da Nairobi fino a Napoli, fino a Mons, a New York. Cerchiamo di tenere viva questa rete, non virtuale ma una rete fisica di persone, di cuori che rimangono in contatto. Ogni esperienza e ogni città poi racconta la sua: a Napoli da tutta l’esperienza di “Arrevuoto” è nata proprio una compagnia, Punta Corsara, che è venuta anche a Ravenna; a Lamezia Terme, che è stata una delle situazioni più difficili ma anche più esaltanti in cui abbiamo lavorato, gli adolescenti continuano a lavorare sulla non-scuola, nonostante che il loro comune per la terza volta nel giro di un paio di decenni sia stato commissariato per ’ndrangheta. Quindi diciamo che Ravenna è un po’ il terminale di una serie di esperienze vive che ci sono in tutta Italia e anche nel resto del mondo».

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