Marchi: "L'affresco di Sigismondo non doveva essere spostato"

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Tradire il significato delle immagini, stravolgere il senso delle opere è un rischio che si corre quando i contemporanei perdono le chiavi di lettura del mondo antico. Nel campo della storia dell’arte è facile cadere in errori di mala interpretazione, e a darne le prove è Alessandro Marchi, storico dell’arte leontino, con il caso del celebre affresco di Piero della Francesca, “Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo”, conservato nel Tempio Malatestiano di Rimini. Marchi, funzionario Mibact e direttore del Forte di San Leo, del Museo archeologico nazionale di Sarsina e della Villa romana di Russi, sostiene che nel caso del Tempio Malatestiano «è stato messo sopra l’altare (l’ultimo a destra guardando l’abside) un affresco che non potrebbe assolutamente starvi, poiché raffigura un evento celebrativo mondano. Mettendolo sopra un altare, se ne travisa il significato reale».

Che cosa rappresenta l’affresco di Piero della Francesca, e perché è stato frainteso?

«Raffigura Sigismondo Malatesta in ginocchio di fronte a un santo, a sua volta seduto in atteggiamento di benedirlo o di cogliere una supplica. Il santo è san Sigismondo, che porta lo stesso nome del condottiero. Ma in realtà ricorda chiaramente il ritratto dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, il quale, in visita a Rimini, nel 1433 investì il Malatesta del titolo di cavaliere. I Malatesta non sono mai diventati dei nobili titolati, semplicemente erano nobili condottieri, ma non furono mai conti o duchi… Quindi questa cerimonia di investitura, un primo grado per raggiungere un titolo nobiliare, che Sigismondo Malatesta non è mai riuscito a ottenere, era una cerimonia importante. Ma strettamente privata. L’affresco infatti era destinato alla cella delle reliquie, cioè a una dimensione privata, tanto che alla cella si accede solamente se qualcuno ti apre la porta. Mettere l’affresco dietro a un altare è erroneo».

Quindi un’immagine semi privata, altamente evocativa della vita di corte rinascimentale, diventa una pala d’altare, un’opera di fede e devozione.

«Addirittura, se l’altare fosse consacrato, il sacerdote, celebrando, innalzerebbe l’ostia verso il ritratto di Sigismondo Malatesta, che decisamente non era un santo: venne scomunicato da papa Pio II il giorno di Natale del 1460, l’anno successivo il papa gli intentò un processo diffamatorio che si concluse con il rogo della sua effigie a Roma nel 1462. La condanna era esagerata rispetto alla verità, ma da quel momento Sigismondo aveva perso il suo ruolo di capitano di ventura richiesto dalle signorie italiane e in pochi anni andò in rovina fino a morire nel 1468, dopo aver addirittura cercato “lavoro all’estero”, in Morea. Insomma, mettere l’affresco sopra un altare vuol dire ribaltare il suo significato, porre una persona condannata dalla Chiesa in una posizione sacrale».

Perché l’affresco è stato spostato?

«L’affresco è trasportabile perché venne staccato durante la Seconda guerra mondiale. Rimini era bombardata continuamente, in tutta fretta il restauratore Arturo Raffaldini staccò l’affresco e la sinopia (dove c’è il disegno di Piero della Francesca). Tra l’altro, dovette usare un sacco di formaggio perché non aveva abbastanza colla di caseina, necessaria per staccare l’affresco».

Come interpreta questo fraintendimento?

«Significa tradire il significato delle immagini. Dà l’idea di come siamo tristemente ignoranti rispetto alla cultura del passato. È un fatto irrispettoso, prova che nessuno conosce la storia dell’arte e i suoi meccanismi più intimi, intrecciati profondamente al momento storico in cui le opere sono state realizzate. Io mi immagino che lui, Sigismondo, se la rida, che dica “questa è la mia vendetta nei confronti di Pio II”. Una vendetta e insieme un trionfo, una rivincita impossibile: dalla polvere sugli altari…». Ma qual è la storia dell’affresco? «Intorno al 1450 – spiega Marchi – Sigismondo Malatesta decise di riformare la chiesa di San Francesco, voleva che diventasse simbolo e mausoleo della famiglia. Va detto che la bellezza delle chiese non era fine a se stessa ma aveva uno scopo funzionale: le belle immagini avevano una grande forza attrattiva nei confronti dei fedeli, del popolo. Più gente entrava in chiesa, attirata dallo sfarzo e dalla bellezza all’interno, più gente ascoltava il messaggio evangelico e iniziava a seguirlo. Le immagini nella religione cristiana hanno avuto un grandissimo rilievo perché erano l’elemento più forte per avvicinare il popolo alla fede. E se queste immagini erano riconducibili a una certa committenza, aumentava il prestigio dei committenti. Sugli altari però dovevano stare immagini sacre: santi, patroni, apostoli, angeli… le figure laiche non erano mai protagoniste». E.B.

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