Marcello Pieri: Il mio ricordo per Pantani

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Il cesenate Marcello Pieri (1965) è un artista di successo; ha una bella famiglia, una bella casa, un podere da coltivare nella campagna di Tipano, vende prodotti genuini al mercato ambulante lungo il fiume Savio, e poi scrive canzoni, le canta, le suona. Ma un tempo l’attività di “canzoniere” scandiva i suoi giorni, al punto da fargli vivere il senso di ebbrezza del successo, quello che ti fa toccare il cielo con un dito, quando tutti ti cercano e tutti ti vogliono. Un successo arrivato a 20 anni, nel 1985 al Festival di Castrocaro, lanciato da Mara Maionchi, culminato al Festivalbar del 1991 con il blues “Se fai l’amore come cammini” di grandi ascolti e vendite, fino al festival di Sanremo 1993 quando portò “Femmina”, e al 1997 quando aprì la tournée italiana di Bob Dylan. In seguito a delusioni, vicissitudini, una lite furibonda con Vasco Rossi (ma non ne spiega le ragioni), hanno spinto il cantautore ad allontanarsi dal bailamme dello showbiz, a misurarsi con esperienze lavorative diverse, anche fuori dal comune. «Per 7 anni, dal ’99 al 2004, sono stato in Cina a vendere tessuti, spostandomi tra Indonesia, Giappone, Cina, Malesia, Thailandia. Un’esperienza bellissima che mi ha fatto capire che me la posso cavare in ogni circostanza». Ma non ha mai smesso di essere artista. Così nel 2010 è arrivato il cd “Leggerezza”, nel 2018 “Se cerchi un eroe non sono io”. Di Pieri è anche la canzone “In punta di piedi” scritta per Marco Pantani più di 23 anni fa, ma lanciata solo da qualche mese on line. Il pezzo si ascolta sul canale Youtube di Marcello Pieri; si completa con il video “Storia di una canzone” diretto dal cesenate Paolo Santolini, regista a Roma per la Rai, con la bella chitarra di Riccardo Bondi. Nel video, Marcello a tavola racconta la genesi della canzone del “Panta”. “In punta di piedi” è un ritratto del ciclista più amato non solo in Romagna, di cui proprio oggi ricorre il 17° anniversario della morte, avvenuta nella stanza di un albergo di Rimini. Camera in cui venne ritrovato anche il testo della “sua” canzone: «La portava sempre con lui, ricorda Pieri, e solo in quella drammatica circostanza il testo venne alla ribalta».

Pieri, come nacque il brano?

«Un giorno, era il 1997, mi telefona Marco Pantani e mi chiede: vorrei che tu mi scrivessi una canzone, come per farmi un ritratto, perché vorrei cantare a Sanremo. In mezz’ora fu a casa mia con il suo Porsche, mi raccontò di lui, del Giro, del Tour, della morosa. Ho percepito in Marco carattere, volontà, ma anche qualcosa di misterioso e indecifrabile. Ci salutammo, mi misi al pianoforte e, non so come, d’incanto, in mezz’ora la canzone arrivò. Lo richiamai per dirglielo, lui si precipitò da me, la ascoltò, si commosse. “Questa è la mia canzone”, disse. Una magia».

Perché il pezzo non uscì subito e perché solo adesso?

«Non uscì perché Pantani non andò a Sanremo. Dopo la sua morte il testo fu pubblicato sui giornali ma a me sembrò becero farla uscire in quella mesta circostanza. Poi tanti scrissero canzoni su Pantani, ma io non volevo che la mia diventasse una delle tante, perché era quella che Marco reputava sua».

A distanza di tanti anni quale significato acquista?

«Essendo nata in un lampo, non avevo realizzato il significato profetico delle parole “me ne andrò come sono arrivato, in punta di piedi”, e il passaggio “sentirsi il re del mondo e poi non valere niente”: in quel 1997 non era prevedibile tutto quello che sarebbe accaduto poi. Pantani era un sognatore, appassionato di musica, aveva una volontà di ferro e il dono di un cuore formidabile che si affaticava meno degli altri, uno di quei campioni rari, e l’abbiamo rovinato».

Un campione amato come pochi, che ha tanto commosso e pure deluso.

«C’è l’artista e c’è la persona, bisogna scindere. Non è detto che Mozart fosse eticamente una brava persona, però era Mozart. Così le canzoni dei Beatles restano, il fatto che Paul McCartney fosse avido non significa nulla, c’è un valore oggettivo nell’arte che prescinde dal valore della persona. Gli artisti come i campioni, sono dei tramiti, perché non dipende solo da loro, ma da un dono che hanno e che spesso non è trasversale».

Come si è modificato il suo dono di scrivere canzoni?

«Lo spirito con cui faccio musica è lo stesso, anzi oggi sono migliore di ieri nel comporre. In questi anni ho studiato con il pianista jazz riccionese Massimiliano Rocchetta, ho collaborato con Stefano Nanni, con Massimo Sutera che ha suonato al Madison Square Garden. Con grandi musicisti romagnoli, perché tanti ne abbiamo nella nostra terra, che sono pure umili. L’unica cosa che è cambiata è che non sento più il bisogno di apparire. Un tempo ero più egocentrico, avevo l’urgenza di salire sul palco, oggi molto meno».

Quindi le canzoni non sono più una priorità?

«Se la musica mi desse da vivere come allora, non dovrei più alzarmi alle tre del mattino; ma lo vivo con serenità. Vorrei continuare a pubblicare le mie cose standomene qui in campagna, a cantare per gli amici; vino e camino al posto di palco e riflettori».

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