Manifattura dei marinati: presidio dell'anguilla e di una cultura

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Buio di luna, vento di bora, alta marea. Di qui a breve, quando queste tre condizioni si allineeranno fra cielo, terra e acqua, allora si comincerà a pescare l’anguilla selvaggia nelle Valli di Comacchio con il metodo tradizionale. Si apriranno le porte vinciane delle chiuse, per fare entrare l’acqua dal mare e le anguille sessualmente mature, che hanno pascolato in queste valli per otto o anche dodici anni, cercheranno l’uscita controcorrente per prendere il largo e andare a riprodursi nel Mare dei Sargassi, dall’altra parte del mondo. Gli “inganni da pesca” dei lavorieri, fatti un tempo, quando valle e montagna dialogavano per necessità, di legno di castagno e cannarella, le sviano verso passaggi impervi che ne seleziona una parte. Circa il 50%, quello che nuota di sponda, resterà intrappolato, un altro 50% il mare se lo guadagnerà e inizierà il suo incredibile viaggio per andare a deporre le uova a migliaia di chilometri di distanza. Uova da cui nasceranno avannotti che ripercorreranno esattamente a ritroso, e ancora non si sa come e perché, il viaggio delle loro madri.

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La pesca-raccolta
Quella quota di anguille lasciate libere dunque serve a garantire un ecosistema e insieme un raccolto. «La pesca di valle, che più che una pesca è una raccolta, ha sempre garantito questa “fuga”, era l’unico modo per avere ancora anguille gli anni futuri», spiega Alessandro Menegatti, presidente della cooperativa sociale che gestisce per conto del Parco del Delta la Fabbrica dei marinati di Comacchio. Per salvaguardare la specie selvaggia, dunque, non basterebbe allevarla l’anguilla?. «Eh no, anzi, il contrario – sorride Alessandro –. L’anguilla non si riproduce in cattività, e gli allevamenti sono quelli che catturano le cieche mentre migrano, le confinano in uno spazio preciso e le sovralimentano ingrassandole e portandole in tre anni al peso che in natura viene raggiunto nel triplo o quadruplo del tempo. Inoltre le anguille allevate vengono tutte utilizzate, nessuna torna al mare». Ovviamente le carni che se ne ricavano non sono ugualmente pregiate. «La pesca in valle è differente da quella in mare, ma si tratta sempre di pesce non alimentato, ma che si nutre di quello che trova e nel caso dell’anguilla sono gamberetti e acquadelle per lo più. Quando cuoci un’anguilla di allevamento in genere si restringe molto e la pelle diventa dura come un copertone». Ma soprattutto non è la stessa cosa per l’ambiente.
Preservare la valle
«Dal 1600 l’uomo gestisce le acque delle valli con questo sistema. Ha sfruttato sì, ma anche preservato un ambiente, mantenendolo, io dico, artificialmente naturale». Spiega ancora Alessandro Menegatti mentre si muove fra la sala dei camini e quella della “calata” dove un tempo entravano le barche cariche di anguille vive, e che oggi è un museo, sia pure produttivo. «Per mangiare anguilla ancora oggi dobbiamo per forza custodire l’ambiente. Le anguille non ci sono solo qui a Comacchio, ma è vero che le nostre sono state riconosciute dagli studi come le migliori riproduttrici. Qui sono l’ultimo anello della catena alimentare, hanno cibo e nessun predatore –spiega ancora Alessandro Menegatti –. Si tratta però di salvaguardare sempre quella quota di riproduttrici, e di rigenerare intorno alla produzione e anche al consumo dell’anguilla, una cultura e un uso corretto dell’ambiente, serve un’operazione di sistema. Ad esempio rendendo riconoscibile il prodotto originale, quindi educando il consumatore a riconoscere la materia prima di qualità rendendone obbligatoria l’indicazione sulla confezione, noi che lavoriamo l’anguilla del Presidio Slow Food lo stiamo facendo, indicando luogo di pesca, metodo di esca, marchio della manifattura. L’anguilla selvaggia pescata a Comacchio non è quella allevata poi congelata che arriva in abbondanza dalla Tunisia viene lavorata in Veneto poi torna indietro anche sui nostri mercati locali, o quella allevata in Francia, in Danimarca in Canada. Succede per l’anguilla un po’ quello che succede per il salmone. Dobbiamo far capire che abbiamo per le mani una ricchezza, ma che va usata in maniera ragionevole e non solo ai fini del guadagno, che un’ economia può essere solo estrattiva, ma non serve, quella utile è un’economia che genera, lavoro, cultura, buon cibo e molto altro. Insomma per salvare l’anguilla, e mangiarla ancora, dobbiamo salvare prima gli uomini…».
Non solo anguilla
L’annata di pesca passata è stata copiosa: per la manifattura sono stati pescati, e lavorati, appena 54 quintali di anguilla di valle. Quantitativi evidentemente lontani da un qualsiasi parametro industriale, «eppure in tre anni abbiamo triplicato la produzione» dice Alessandro, ovviamente allargandola anche ad altri prodotti, come le alici e le sarde marinate. Mentre si attende che le porte vinciane si aprano alle condizioni che abbiamo spiegato, e che arrivino i carichi di anguilla della nuova annata (la pesca va da ottobre a dicembre), nella Fabbrica dei marinati non si resta con le mani in mano, perché da marinare e inscatolare nelle celebri latte colorate e rese famose dalla “ragazza del fiume” Sophia Loren, ci sono le alici e le sarde. «La coop sociale Work and services che aveva cominciato a lavorare per il parco nel 2008, ha in gestione la Manifattura dal 2015. Questo luogo storico era stato recuperato nel 2005 come area museale dopo 25 anni di abbandono –spiega Menegatti –. Un po’ alla volta si sono riaccesi i camini e il museo è diventato un “museo produttivo”. Abbiamo implementato in poco tempo la rete commerciale, e i nostri marinati si possono acquistare qui allo spaccio aziendale collegato al museo e alle sale di lavorazione e in 60 botteghe e gastronomie del territorio e di altre regioni italiane». Questo lavoro antico ha rigenerato oggi una comunità, fatta dei pescatori delle valli e delle persone, una dozzina, che ha trovato un lavoro e fra poco cominceranno a infilare negli spiedi le anguille e a cuocerle nei cinque camini, sui dodici presenti, che verranno riaccesi. Mentre altrettante staranno già nuotando verso qui mari lontani.

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