Mangiare patate è sostenibile?

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Hanno un’impronta ecologica che batte praticamente tutti e che è di gran lunga inferiore alla carne bovina, al latte, al formaggio. Le patate sono virtuose sotto un punto di vista ecologico, perché hanno un bassissimo costo di carbonio e di acqua. Una coltura virtuosa per consumo di suolo messo in proporzione alle calorie prodotte. E della patata, poi, non si butta via niente: le bucce possono essere riutilizzate in cucina, nel giardinaggio e nella produzione di energia. Dei 44.000 ettari coltivati in Italia, in Regione ce n’è poco meno di un decimo (circa 4.000), con eccellenze che toccano le pianure coltivate del Bolognese e della Romagna. Il perché è presto detto. «Questa è una delle zone più vocate d’Europa, con pianure fertili, alluvionali, dove la risorsa idrica non manca e c’è un andamento climatico favorevole», spiega Giulio Romagnoli, amministratore delegato dell’azienda di famiglia che porta il suo nome, e che è tra i grandi produttori di patate in Italia. Suo padre fu il promotore a Bologna della prima Dop di settore grazie alla varietà Primura, dalla forma ovale e dalla buccia liscia. Quindi, di esperienza la sua storia ne ha da vendere. «È il terzo alimento più consumato al mondo dopo riso e mais», prosegue. «La Cina è il primo produttore mondiale proprio perché ha capito che ha un minore consumo di acqua rispetto al riso», aggiunge. Il futuro del prodotto sostenibile per eccellenza è proprio nella qualità. Un po’ come le mele o il caffè, infatti, si tratta di un prodotto della terra soggetto a diverse variabili e a qualità che la differenziano. Proprio come le mele, si arriverà in un prossimo futuro a sceglierle per qualità. Quindi, una buona pratica può essere quella di capirne le differenze per fare una selezione al momento dell’acquisto. Con l’Istituto per la Bioeconomia Ibe-Cnr di Bologna, Romagnoli ha avviato un programma di monitoraggio della produzione per la caratterizzazione delle varietà dal punto di vista strumentale e sensoriale, con l’obiettivo di determinare gli impieghi culinari e l’attitudine alla frigoconservazione.

Partendo dalla caratterizzazione delle varietà, alle classiche analisi strumentali sul prodotto crudo (analizzando, per esempio, il peso medio, il calibro, la consistenza, il colore della polpa e della buccia, il peso secco e l’indice di lavabilità), si affiancano test quantitativi-descrittivi (Qda) tipici dell’analisi sensoriale, condotti da un gruppo di 8-10 assaggiatori selezionati e addestrati dai ricercatori Ibe. Questo metodo di indagine permette di valutare fattori non rilevabili dagli strumenti, quali i caratteri aromatici, gustativi e di texture. «Attraverso questa collaborazione, affermiamo ancora una volta la nostra vocazione alla sperimentazione – commenta Giulio Romagnoli – che, in questo caso, intende porre l’accento sull’utilità dell’analisi sensoriale come strumento da affiancare alle rilevazioni strumentali per caratterizzare le varietà. L’indagine sensoriale risulta particolarmente utile nell’ambito di una ricerca varietale che ha l’obiettivo di immettere sul mercato un prodotto con elevati standard di qualità e sostenibilità e in grado, al contempo, di soddisfare le aspettative di un consumatore sempre più attento alla qualità e caratteristiche delle materie prime che sceglie per la realizzazione delle proprie ricette».


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