Il coraggio delle madri dei disabili raccontato nei fragili equilibrismi di una quotidianità solitaria, gravata dal trascorrere del tempo. L’amore che supera ostacoli e pregiudizi proteggendo eterni bambini viene immortalato, uno scatto dopo l’altro, nel volume a cui sta lavorando Giancarlo Frisoni. Nato 65 anni fa a Montescudo, nell’entroterra riminese, Frisoni scrive, dipinge e fotografa da quand’era piccolo. Negli anni non sono mancate le consacrazioni ufficiali all’Expo di Milano (2015) e alla Biennale di Venezia (2015 e 2017), mietendo recensioni positive dal critico d’arte Vittorio Sgarbi e dal compianto scrittore Umberto Eco, ma ciò che preme all’artista è dar voce agli ultimi. Figlio di contadini, tenta di portare avanti la memoria del territorio, concentrando il lavoro su un’antica civiltà e l’esodo che l’attanaglia. Per farlo, dipinge usando i colori della natura, dal mallo di noce alla terra passando per il rosso dei papaveri. Dietro l’angolo l’ultima opera fotografica dal titolo “Madri”: 15 storie e oltre 200 pagine dense di tutta la gamma delle emozioni.
Frisoni, come è nato questo progetto?
«Qualche anno fa ho conosciuto due anziane malate di Alzheimer che non si separavano mai da bambolotti riservando loro tenerezze e premure. All’epoca anche la mia nipotina giocava con le bambole, da qui la ricerca di storie dove quest’indole dovesse ergersi e dispiegarsi contro il mondo, più forte di ogni avversità. Così è iniziato il meraviglioso viaggio che mi ha fatto approdare in un mondo parallelo al nostro, terribile e sublime, un mondo che da fuori intravediamo appena, prestandovi un barlume di curiosità. Eppure queste madri coraggio hanno bisogno di attenzione e sostegno, perché sono lasciate sole dalle istituzioni e talvolta anche dal marito. Nel libro presento 15 storie di donne con figli dalle patologie più disparate: dalla sindrome di Down all’autismo, incluse malattie più rare, spesso in comorbilità tra loro. Tutte anime in trincea».
La ricerca volge alla conclusione?
«Desideravo chiudere con la storia di una malattia terminale ma pare impossibile. Il lavoro è andato avanti per ganci e amicizie ma quest’ultima idea ha suscitato scalpore, facendomi sentire un appestato. Non voglio offendere né turbare nessuno, solo ritrarre l’estremo passo dell’amore che consiste nell’accompagnare alla fine del viaggio chi amiamo di più al mondo. Sopravvivere alla propria creatura resta la tragedia più inaudita e straziante. Laddove le parole non bastano, arrivano le immagini».
Cosa accomuna tutte queste donne?
«Un’infinita bellezza interiore e una dignità anche più grande. Desiderano solo che la gente guardi il figlio come un essere umano e non un mostro. Non la vergogna ma il pilastro della famiglia, la base su cui costruire ogni giornata. Una signora di quasi 90 anni mi ha confidato l’angoscia di morire non sapendo a chi lasciare il figliolo, né cosa sarà di lui. Quand’erano migranti in America, una trasfusione non compatibile ha ridotto quest’uomo, ora 60enne, a un bambino di 5 anni, sempre mano nella mano con lei».
Altre vite in salita?
«Una madre con 12 figli: l’ultimo è affetto da gravi patologie che, nel pieno delle pulsioni adolescenziali, lo rendono violento, ma lei è incredibile, non arretra di un passo. Poi c’è la ragazzina che ha bisogno di ogni attenzione, anche di essere imboccata. Questi figli restano eternamente piccoli, con un’infanzia cristallizzata e sospesa nel tempo. Le madri invecchiano ma devono continuare a infilare calzini e cantare ninne nanne, è struggente vedere come li aiutino a vivere ogni esperienza, senza far pesare la fatica enorme che costa. Li portano in vacanza, a ballare, volano sulle due ruote con loro e sperimentano persino la moto d’acqua. È come se riportassero la luce nel buio, strappando all’inferno ciò che inferno non è».
C’è una storia nella storia?
«Quella della donna che non riusciva a restare incinta e si è sottoposta a qualunque tentativo per poi volare in Sudamerica, dopo anni di attesa. È tornata con un frugoletto fra le braccia che crescendo è caduto nel tunnel della droga. Le mie foto li ritraggono a San Patrignano, pronti a rinascere insieme. Non manca chi ha subito aborti spontanei, prima di divenire madre di bambini con disabilità».
Progetti futuri?
«Raccontare la vita degli anziani nelle case di riposo mostrando che fino all’ultimo la vita è sacra, meritevole di rispetto e dignità. E – perché no? – anche di gioia e divertimento».