Musica e coca durante l’agonia poi la lite quando il Balla muore

Lugo

RAVENNA. «Aveva un colore che mi sembrava fosse andato...neanche il tempo...speravo di rinvenirlo...ho chiamato Antonio, gli ho chiesto di stargli accanto... dopo gli ho aperto il finestrino, perché poi era venuto il sole. Alle 11 si era anche ripreso. Io gliel’ho detto agli sbirri, gli abbiamo buttato anche acqua in faccia. Speravo che Antonio rimanesse invece di andare dalla morosa, io dovevo andare a lavorare, ma alle 15 sono tornato. Ho avuto il pensiero tutto il giorno. Ma ho visto che Matteo aveva la testa ribaltata sul finestrino, ho detto: cazzo! (...) allora gli giro gli occhi e vedo che li ha ribaltati. Gli ho dato degli schiaffi. Urlavo: Balla Balla!! Ma niente. Poi ho visto che aveva la bocca chiusa, gliel’ho aperta, ma aveva la lingua viola. Poi...»

E poi Leonardo Morara, 28 anni, uno degli arrestati per la morte del 18enne Matteo Ballardini, uno dei pochi che in questa vicenda sembra mostrare qualcosa lontano dalla ragionevolezza, ma pur sempre vicino alla pietà, capisce che l’amico (parola grossa) è morto. «E’ andato» come dice lui. Crepato sotto il sole per gli effetti di un mix di metadone, cannabinoidi e psicofarmaci che dopo circa 16 ore di agonia e atroci sofferenze se lo porta via. Il tutto mentre attorno gli amici fanno ogni cosa tranne prendere l’unica decisione sensata: chiamare l’ambulanza che gli avrebbe salvato la vita.

È uno spaccato tragico che mischia cinismo e semplice sciatteria quello che emerge dall’ordinanza di custodia cautelare che mercoledì ha portato in carcere quattro ragazzi lughesi con l’accusa di omicidio volontario pluriaggravato: la 22enne di Lavezzola Beatrice Marani (la ragazza accusata di aver portato quella sera dell’11 aprile 2017 a Matteo le sostanze che lo hanno poi ucciso), Simone Palumbo, 22enne di Lugo , il 24enne marocchino Ayoub Kobabi e appunto Morara.

Una ricostruzione minuziosa dei fatti, che la Squadra Mobile in questi mesi ha portato avanti tassello dopo tassello, grazie a quello che il gip Andrea Galanti definisce con un azzeccato ossimoro “coro muto”. Una messe di dati e confessioni rese inconsapevolmente dagli indagati nel corso di incontri con altri coetanei che, muniti di cellulari, spesso registravano e mettevano poi in circolo via whatsapp. Ricordi “rubati” ma diventati ora, per la procura, prove schiaccianti in vista del processo, ma anche una specie di crudo affresco generazionale.

Per capirlo basta leggere le trascrizioni di una di quelle “confessioni”.

Ad esempio quella di Morara che appena capisce che Balla è “andato” chiama Beatrice Marani, la ragazza che per il gip ha “una personalità forte e dominante” sul gruppo e che, poche ore dopo la morte di Balla, arriva persino a calunniare un pusher maghrebino pur di togliersi gli sbirri di torno. «Ah sono appena arrivata a casa - risponde la Marani - mi stavo facendo il mio primo bong (fumata di hashish in una specie di bottiglia ndr) era meglio se non me lo dicevi. Ah le mie pasticche! Perché la gente non regge quello che prendo io?» Quasi infastidita, insomma, per la seccatura che gli fa “prendere male” il primo bong della giornata. E così rimanda l’appuntamento con Morara alle 9 di sera per parlare di quello che è successo. Ma Morara non ci sta, anche perché ha un’altra esigenza: mettersi d’accordo con il gruppo per vedere cosa dire ai carabinieri. Perché lui, dirà agli amici in quei giorni: «Già si vedeva sui giornali».

Ma in quei ricordi che sembrano usciti da un Trainspotting di provincia emergono scene che lasciano letteralmente senza fiato.

Come quella che vede Balla agonizzare nella sua Polo nera con gli occhi sbarrati e gli “amici” accanto che si facevano righe di coca a turno con la musica a palla. Cocaina che, in teoria, nello sciagurato piano di quei ragazzi doveva servire a far riprendere proprio il Balla non appena avesse riaperto gli occhi. Ma il Balla gli occhi non li riaprì mai più. c.d.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui