Morto d'overdose a Lugo. Le difese: "Credevano si riprendesse"

Non sono assassini. Avrebbero banalmente atteso, convinti – «sulla base della loro esperienza di tossicodipendenti» – che “Balla” si sarebbe ripreso. Questa la rilettura della drammatica fine di Matteo Ballardini, narrata dal punto di vista delle difese di Beatrice Marani, Leonardo Morara, Giovanni Simone Palombo e Ayoub Kobabi, i quattro ragazzi accusati di avere rivestito una “posizione di garanzia” nei confronti 19enne in overdose da metadone, cioè di averlo assistito decidendo infine di lasciarlo morire abbandonandolo in auto dopo avere passato con lui tutta la notte tra l’11 e il 12 aprile del 2017.
Ieri, le battute finali dell’appello bis non hanno risparmiato un inaspettato contrattacco: una frecciata rivolta agli stessi medici che ebbero in cura la vittima, dimettendola poco prima della tragedia.
La Corte presieduta dal giudice Donatella Di Fiore dovrà esprimersi su un nodo cruciale: stabilire se – come ritenuto in primo grado dal tribunale di Ravenna – i quattro imputati sono colpevoli di omicidio volontario con dolo eventuale per avere deciso quella notte di non chiamare i soccorsi pur di non finire nei guai, accettando il rischio che l’amico morisse. Oppure se – come stabilito nel primo appello, poi annullato in Cassazione – devono rispondere di un delitto colposo, o al più di un’omissione di soccorso, reati che avevano comportato una notevole riduzione delle pene.
Lo studio americano
A fornire l’assist per le difese è un passaggio dell’intervento del medico legale Alberto Furlanetto, perito nominato dalla Corte d’assise d’appello per stabilire se e fino a che ora un ricovero ospedaliero avrebbe salvato la vita al ragazzo.Rispondendo a una domanda dello stesso procuratore generale Licia Scagliarini, l’esperto aveva citato uno studio americano su persone in overdose non soccorse: «L’atteggiamento comune dei presenti – aveva riportato – è stimolare il soggetto nella ragionevole convinzione che si riprenderà». “Ragionevole”, aveva proseguito, «sulla base della loro esperienza, perché è difficile morire di metadone e pertanto l’aspettativa è che alla mattina successiva ci si risvegli». Una risposta che per i difensori degli imputati farebbe dunque cadere il cosiddetto “elemento soggettivo”, cioè la volontà di commettere il reato contestato.
Dall’altro lato, però, l’accusa insiste sulle «condotte commissive» dei quattro, che quella notte spostarono Matteo da un sedile all’altro della sua auto, guidarono il veicolo in un parcheggio isolato per non dare nell’occhio, gli spensero il telefono, rimasero con lui fino al sorgere del sole fra musica, birra e droga per poi allontanarsi lasciandolo chiuso a bordo. Uno scenario che per la procura generale vale la condanna a 9 anni e 4 mesi per la Marani e per Morara, e 6 anni 2 mesi e 20 giorni per Palombo e Kobabi.