Morti sospette in corsia: scontro tra periti sul potassio

Lugo

«Adesso facciamo basta». Con queste parole il presidente della Corte d’assise d’appello di Bologna, Stefano Valenti, tronca il faccia a faccia tra periti e consulenti della Procura generale, della difesa e delle parti civili, chiamati a confrontarsi nuovamente sulle modalità con le quali, secondo l’accusa, l’ex infermiera dell’ospedale di Lugo Daniela Poggiali avrebbe somministrato e ucciso con dosi di potassio la paziente 78enne Rosa Calderoni, l’8 aprile del 2014. Non sono ancora le 13, e da un paio di ore gli esperti si affrontano in un botta e risposta serrato su una materia complessa, sintetizzando le rispettive posizioni depositate in tempi record, secondo un calendario che il 21 e il 25 ottobre (a poco più di un mese dall’apertura del processo) dovrebbe già portare a due sentenze. Una (la sesta, se si contano tutti i gradi di giudizio già affrontati) riguarda il presunto omicidio della Calderoni, per il quale la 49enne di Giovecca di Lugo è stata condannata all’ergastolo nel 2016 e assolta in appello con due sentenze poi entrambe annullate dalla Cassazione; l’altra si riferisce al decesso sospetto del 94enne Massimo Montanari, ex datore di lavoro dell’allora fidanzato dell’infermiera, con cui la donna aveva avuto una discussione, deceduto inaspettatamente nel reparto di Medicina il 12 maggio dello stesso anno e costato alla Poggiali 30 anni di pena in abbreviato in primo grado lo scorso dicembre.

«Bastava una fiala o poco più»

Per i tre consulenti del procuratore generale Luciana Cicerchia (i professori Franco Tagliaro, Federica Bortolotti e Francesco Santini), qualsiasi somministrazione del farmaco ipotizzata sarebbe stata oltre gli standard di sicurezza in una paziente come la Calderoni, già ricoverata in condizioni critiche e non affetta da ipopotassiemia. «Sarebbe stata sufficiente una fiala o poco più», sostiene Santini prima di produrre il risultato di un calcolo che per l’accusa vale la condanna: «La potassiemia ematica aumenta di un punto per ogni fiala somministrata». La paziente partiva da 4,3, e secondo l’accusa sarebbero due i flaconcini infusi dalla Poggiali. La soglia limite è di poco superiore, ma gli esperti nominati dai legali dell’imputata, gli avvocati Lorenzo Valgimigli e Gaetano Insolera, danno stime diverse: «Per noi una fiala porta all’aumento di 0,25 – spiega il professor Rafi El Mazloum –, e i livelli di iperpotassiemia che provocano arresti cardiaci sono elevatissimi, oltre 7». Ma, ribatte il consulente della Procura, «è inutile insistere nel dire quante fiale ci vorrebbero per fermare un cuore. Non è quello che è successo. Stiamo parlando di quanto potassio sarebbe servito per compromettere una situazione già critica. Con queste concentrazioni di potassio certamente si può morire».

Dove fu iniettata la sostanza?

I dosaggi su cui si dibatte sono anche quelli riscontrati nel deflussore della flebo, ricondotto alla paziente dopo il decesso: 70 millimoli. Un dato che conduce a uno degli altri punti contestati: e cioè come abbia fatto l’infermiera a somministrare le fiale di potassio, considerato che un’iniezione in bolo, cioè direttamente in vena, avrebbe di certo provocato un immediato arresto cardiaco, cosa invece non avvenuta. Per i periti del tribunale Mauro Rinaldi e Giancarlo Di Vella – gli stessi scelti dalla Corte nell’appello bis – una qualsiasi altra modalità avrebbe lasciato tracce: «Non è possibile introdurre potassio nello sperone, che è imperforabile, e inserire una siringa nella camera di gocciolamento della flebo lascerebbe un buco nella plastica tale da fare uscire il liquido. L’unica ipotesi percorribile è che sia stata immessa nel canale a Y presente nella parte finale del deflussore, ma sarebbe stata un’immissione immediata». Eppure, controbatte per le parti civili la dottoressa Donatella Fedeli (nominata dagli avvocati Maria Grazia Russo e Marco Martines, legali dei familiari della vittima, e l’avvocato Giovanni Scudellari per l’Ausl) «lo sperone è assolutamente penetrabile». Concorda per l’accusa il professor Tagliaro: «Lo sperone ha più fori, ma si può tranquillamente iniettare con un ago sottile nella camera di gocciolamento, senza contare che c’è anche una soluzione molto più semplice, e cioè arrivare con una piccola sacca estranea e poi riposare la fiala della flebo». Senza contare che un’altra forma di somministrazione, come quello nella Y, avrebbe comunque avuto un effetto di diluizione, tale da non provocare un immediato arresto cardiaco.

La durata della flebo

Ipotesi tutte messe in confronto con la testimonianza della figlia della 78enne, che raccontò di essere stata allontanata quel giorno dalla stanza dalla Poggiali per alcuni minuti, tra le 8.10 e le 8.20. Un tempo sufficiente per infondere la sostanza letifera in una flebo che la parente dell’anziana riferì aver visto finire in un attimo, per poi notare che madre stava male, intorno alle 9, fino alla morte. Difficile stabilire con esattezza quanto sia durata la somministrazione: «infusione lenta o intermedia», puntualizza la dottoressa Fedeli sulla base «dell’esperienza clinica», «in entrambi i casi una o due fiale di potassio sarebbero assolutamente idonee a indurre a una paziente compromessa da una patologia cardiaca un quadro di aritmia», così come descritto dal medico di turno Marco Peppi, che quel giorno entrando nella camera, vide la paziente andare in coma, fino a spegnersi per sempre.

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