Lugo, appello bis per Balla: "Condannate gli amici"

Lugo

La notte dell’11 aprile del 2017 Beatrice Marani, Leonardo Morara, Giovanni Simone Palombo e Ayoub Kobabi «si sono fatti carico del corpo incapace di Matteo Ballardini». Trascorrendo ore e ore nell’auto insieme al 19enne in overdose da metadone, spostando il suo corpo da un sedile all’altro, guidando la sua auto in un parcheggio isolato, e vegliando su di lui fino al sorgere del sole fra musica, birra e droga, per poi allontanarsi decidendo di non chiamare i soccorsi, «hanno fatto finta di essere dei caregiver senza però prestare alcuna assistenza». Fecero tutt’altro, invece. «Fin dal primo momento le loro azioni non sono state dirette al benessere dell’amico, ma al proprio», con «un atteggiamento psicologico di una roulette russa». Questi i passaggi salienti della requisitoria con la quale il sostituto procuratore generale Licia Scagliarini ha chiesto alla Corte d’assise d’appello di Bologna di condannare i quattro ragazzi per omicidio volontario con dolo eventuale. In punta di diritto, significa che quella notte accettarono il rischio che il giovane potesse morire, con «una serie di condotte commissive e una costellazione di altre condotte attive» che consapevolmente li portarono a non fare l’unica cosa che gli avrebbe salvato la vita: portarlo in ospedale. Dal punto di vista delle pene, il peso delle accuse cambia eccome, e ieri è valsa la richiesta di condanna a 9 anni e 4 mesi per la Marani, oggi 26enne, definita dal pg «l’anima nera» che quella sera procurò le dosi di metadone a “Balla”, alla quale viene riconosciuta l’attenuante di avere intrapreso un percorso di recupero in comunità, oltre alla giovane età e all’incensuratezza. Stessa richiesta per il 32enne Morara, «il custode del corpo di Ballardini fino alla morte, che però ha aiutato le indagini». Infine 6 anni, 2 mesi e 20 giorni per il 26enne Palombo e per il 29enne Kobabi. Altro che morte come conseguenza dello spaccio (per la Marani) e omissione di soccorso per tutti gli altri, come invece aveva sentenziato lo stesso tribunale bolognese nel 2020 sostenendo al termine del primo appello – poi annullato dalla Cassazione – che i quattro fossero convinti che il ragazzo si sarebbe ripreso. «Un reatucolo, palesemente inconferente» (questo l’affondo del pg) con la vicenda in questione, che aveva portato a ridimensionare notevolmente le condanne emesse in primo grado a Ravenna con rito abbreviato.

La colpevolezza nei messaggi

Per avere un quadro più chiaro è bene tornare ai passaggi salienti della vicenda, ripercorsa ieri dal giudice Donatella Di Fiore, presidente della Corte. Ad ascoltarli, seduti in prima fila, i genitori della vittima Sabrina Bacchini e Luca Ballardini, assistiti dall’avvocato Alberto Padovani. La sera dell’11 aprile di sei anni fa, “Balla” (così gli amici chiamavano Matteo) si incontra con Beatrice dopo essersi accordati per uno scambio di sostanze. Di metadone, gli scrive la ragazza “ ne ho in quantità industriale”. L’appuntamento è al McDonald’s, dove le telecamere immortalano i due giovani in auto armeggiare con le boccette e fumare oppiacei. Poco più tardi il 19enne si sente male. L’amica chiama Palombo, che arriva con i restanti due. L’accusa insiste sui messaggi recuperati all’epoca nel telefonino della Marani, nonostante «una cancellazione assolutamente volontaria» che «entra già nel dolo». Sono le 23.17 e la 26enne scrive al coetaneo: “Niente ambulanza...Il metadone gliel’ho dato io...vado nei casini...deve scendergli la botta...non ha fatto come al solito, ha fatto peggio...è completamente cappottato”. E’ questo il momento, secondo la procura generale, in cui per tutti gli imputati scatta la posizione di garanzia, e dunque «l’obbligo di proteggere» il ragazzo inerme.

Le ultime ore

Si fa l’una. La prima cosa che fanno i quattro è spostare il ragazzo dal lato guida, per parcheggiare l’auto in un luogo meno in vista. Nel frattempo la madre di Matteo chiama ripetutamente finché è la giovane a rispondere; la tranquillizza, le dice che il figlio è in bagno, garantendole che tornerà presto a casa. A quel punto però spegne il cellulare e lo ripone nel cruscotto («un atto criminale»). Inizia così la lunga notte verso il dramma: una capatina in pasticceria, poi il rifornimento di cocaina per tutti da parte di Morara, che alle 3.45 guida l’auto con il 19enne incosciente a comprare sigarette e birre in un bar. Il gestore del locale, vedendo le condizioni del ragazzo, decide di fargli un video, divenuto un documento cruciale del processo. Arriva l’alba e tutti se ne vanno a casa. Matteo rimane a bordo dell’auto, finché è lo stesso Morara, tornando alle 15 nel parcheggio, a constatare che è morto.

«Avevano troppo da perdere»

Quella notte – si appresta a concludere l’accusa – i quattro avevano troppo da perdere: la Marani aveva fornito il metadone, non per nulla era ribattezzata “toxic sister” dagli altri del gruppo, Morara era «quello che ha accompagnato Matteo alla morte senza fare nulla», Palombo spacciava, Kobabi era clandestino. Dunque «non si trattava di preservare Ballardini dall’eventuale ricovero in comunità che avrebbe comportato affidarlo al 118, ma di salvare il loro giro». Il processo si chiuderà la prossima settimana dopo le arringhe delle difese degli imputati, assistiti dagli avvocati Fabrizio Capucci, Carlo Benini e Nicola Laghi. Gli approfondimenti sul Corriere Romagna, in edicola

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