Per la Procura di Ravenna l’omicidio di Pier Paolo Minguzzi non fu un delitto di mafia, e nemmeno l’opera di sciacalli che approfittando della scomparsa del giovane chiesero un riscatto alla famiglia. «Fu invece un sequestro di persona a scopo di estorsione». I responsabili? Gli ex carabinieri Orazio Tasca e Angelo Del Dotto, oggi rispettivamente di 58 e 59 anni, insieme al 67enne Alfredo Tarroni. Contro la loro assoluzione pronunciata dalla Corte d’assise di Ravenna il 22 giugno 2022, il ricorso depositato presso la corte d’appello di Bologna e vergato dal sostituto procuratore Marilù Gattelli e dal procuratore capo Daniele Barberini conta la bellezza di 388 pagine, nelle quali si insiste per la condanna dei tre. Secondo l’accusa furono loro a rapire il 21 aprile del 1987 il carabiniere di leva 21enne, chiedendo alla ricca famiglia di imprenditori ortofrutticoli di Alfonsine un riscatto di 300 milioni di lire, per poi buttarne il corpo nel Po di Volano.
I punti
Centrale, nel ricorso, la richiesta di disporre una nuova perizia fonica, su quella che viene considerata la “prova regina”. Il processo, spiega il pm, nasce infatti dalla comparazione tra due voci corrispondenti a due fatti di cronaca di quell’anno che «vanno considerati congiuntamente, non come emerge nella illogica motivazione della Corte che fa grandi sforzi per tenerli sempre distinti»: si tratta cioè dell’omicidio del povero Pier Paolo e, nemmeno tre mesi dopo, del tentativo di estorsione ai Contarini, altra nota famiglia di imprenditori alfonsinesi. Quest’ultima vicenda portò già all’epoca alla condanna dei tre imputati, arrestati il 13 luglio del 1987 grazie a un’imboscata dei carabinieri alla consegna della valigetta contenente il denaro chiesto ai Contarini, minacciati di subire la stessa sorte dei Minguzzi. Ed ecco un primo passaggio cruciale: nel processo che li ritenne anche colpevoli per la morte del carabiniere Sebastiano Vetrano, ucciso durante la sparatoria, Tasca ammise di avere effettuato le telefonate con le richieste di denaro; lui, con la voce camuffata eppure dall’inconfondibile accento siciliano. Nonostante i sospetti, i tre non furono mai indagati per il delitto Minguzzi, e nemmeno le voci registrate dei due casi furono comparate. Lo ha fatto invece la Procura di Ravenna, quando nel 2018 il caso fu riaperto su richiesta della famiglia Minguzzi. La consulenza affidata all’ingegner Sergio Civino era giunta a un risultato per così dire schiacciante, ritenendo compatibile la voce di Tasca, telefonista reo confesso del caso Contarini, con quella delle chiamate minatorie ai Minguzzi. Poi il colpo di scena processuale, con la perizia affidata dalla corte ravennate al professor Luciano Romito che aveva dato tutt’altro parere. Nessuna corrispondenza tra le due parlate. E questo nonostante il telefonista anonimo durante una chiamata avesse confuso i due cognomi, tra l’altro storpiandoli come era solito fare Tasca: “
Pronto parlo con Contarino... Contarini... Minguzzi?”. Un fenomeno di misnaming così spiegato dal pm: essendo il 21enne già morto, Tasca, Del Dotto e Tarroni «ne avevano già parlato prima, di sequestrare in via alternativa Minguzzi o Contarini». Ecco allora che l’accusa insiste: serve una nuova perizia, e in via preliminare «l’ascolto diretto delle telefonate» dei due casi.
Le argomentazioni
La Procura individua altre prove che inchioderebbero i tre imputati. Se ne contano 25 nelle argomentazioni del ricorso. Tra queste il movente economico «fortissimo e perdurante» che li accomuna, i debiti dovuti al fatto che volessero «vivere una vita al di sopra delle loro possibilità». Ci sono le testimonianze secondo le quali i tre passavano molto tempo insieme e nel periodo del sequestro erano soliti frequentare il bar Agip, di fronte alla casa della vittima. Sospetti che già all’epoca erano stati sollevati dagli inquirenti. L’appunto del capitano Antonio Rocco al comando della Compagnia di Ravenna su indicazione del maggiore Giorgio Tesser, comandate del nucleo operativo di Bologna: riferendosi a un’intercettazione schematizzò una pista investigativa che ha ammesso di non aver mai trasmesso perché, disse, “
me lo hanno impedito”: “
Era Tasca? - Si - Quando? - Il 21”. Stessa sorte il rapporto a carico dei tre redatto dal brigadiere Di Munno, che rassegnò le dimissioni dopo la risposta ricevuta dai vertici: “
Brigadiere, non ha ancora capito che la m. più si gira più puzza?”. E ancora prove, per il pm: l’appostamento di Tasca nella strada delle Valli di Comacchio, vicino al casolare in cui fu tenuto il cadavere di Minguzzi prima di gettarlo nel fiume, i calchi degli anfibi ritenuti dall’accusa compatibili con gli stivaletti neri al cromo in dotazione al tempo ai militari. Infine un altro reperto, il giornalino erotico “I Piccanti”, sequestrato in caserma nell’armadietto di Tasca dopo l’arresto, con un’orecchia nella pagina dedicata alle pratiche di bondage, tipo l’incaprettamento, stessa tecnica con la quale fu legato il 21enne.
I dubbi su Cervellati
Un ultimo capitolo è dedicato alla figura di Enrico Cervellati, il sedicente “Alex”. Solo un mitomane per la Procura, che all’epoca sfruttò la drammatica vicenda fingendosi immischiato, per instaurare una relazione con Sabrina Ravaglia, fidanzata di Pier Paolo. Per la corte bizantina presieduta dal giudice Michele Leoni sarebbe invece una figura dalle molte ombre, assoldata dal gruppo malavitoso che organizzò l’esecuzione. Durante il processo erano stati trasmessi gli atti nei suoi confronti per falsa testimonianza e reticenza, ma le accuse sono già state archiviate. Ebbene, pur chiedendo che venga nuovamente sentito in appello, il pm ritiene che la «nuova pista percorsa dalla Corte» sia «infondata» ed è «chiaro che il Cervellati (...) non c’entri nulla con il sequestro e l’omicidio» bollando come «illogico» considerarlo «un assassinio di mafia». In definitiva la sentenza, contrattacca il ricorso, è «viziata in tutto il suo percorso da una costante contraddittorietà ed incoerenza interna», che rende «il percorso motivazionale contraddittorio e illogico», tale da non trovare conforto nelle massime di comune esperienza o, comunque, nelle evidenze probatorie».