Lugo, palpeggia volontaria della Pubblica assistenza: condannato

Lugo

Tra le volontarie della Pubblica assistenza era un tipo chiacchierato. Uno dall’apprezzamento facile, incline al commento sessista, e talvolta con la mano pronta ad azzardare confidenze tutt’altro che gradite. Eppure in tante lo temevano. Guai a mettersi contro un membro del consiglio di amministrazione, uno conosciuto anche tra le fila dell’Ausl, in quanto autista di ambulanze con ruoli nel sindacato. Così Gabriele Mauro, 62enne di origine bolognese ma residente nella Bassa Romagna, ha mantenuto posto e abitudini fino all’inizio di agosto del 2019, quando si è scontrato con il coraggio dimostrato dall’ultima arrivata: una giovane volontaria che si era avvicinata all’associazione tramite il servizio civile, e che ha deciso di denunciare anziché sopportare in silenzio i palpeggiamenti subiti. E’ stata quella la scintilla che ha portato ieri alla condanna dell’uomo a tre anni di carcere, facendo riemergere durante il processo almeno altri due episodi di violenza sessuale lamentati da altre due donne, la madre stessa della vittima e un’operatrice dell’obitorio di Lugo.

Il pretesto della telefonata

I fatti risalgono al 17 giugno di due anni fa. Il 62enne si sarebbe avvicinato alla ragazza all’interno della sede dell’associazione, fingendosi impegnato in una telefonata. Con un gesto che il sostituto procuratore Antonio Vincenzo Bartolozzi ha definito «improvviso, fermo, ma non eclatante», avrebbe palpeggiato nelle parti intime la giovane, per poi riuscirci una seconda volta, dopo averla afferrata alla vita, nonostante le giovane avesse cercato di allontanarsi. La vittima si era rifugiata negli spogliatoi, restandoci fino all’inizio del proprio turno, svolto senza aprire bocca. Poi però aveva trovato la forza di confidarsi con la madre, la quale aveva poi parlato con il presidente della Pubblica Assistenza, Giovanni Lizza. Fu lui – così ha spiegato durante la deposizione – a chiedere a Mauro di auto-sospendersi da ogni carica, cosa avvenuta dall’1 agosto di quell’anno.

Palpeggiamenti all’obitorio

Sono state le indagini della Squadra Mobile a raccogliere le testimonianze delle colleghe di lavoro, portando all’epoca al divieto di avvicinamento emesso dal gip. Tra queste un’operatrice della camera mortuaria, chiamata ieri a deporre prima della sentenza. «Mi chiese di non metterlo in m... e di non raccontare che cos’era accaduto con me in obitorio». Se l’era cavata con «una mano nella chiappa sinistra», episodio mai denunciato, «perché so difendermi, e lui era un sindacalista della stessa azienda, non volevo avere problemi». In quella conversazione, si era detto estraneo alle nuove accuse, offrendo una surreale prova “logica”: «Mi informò di avere accompagnato a casa mia figlia in ambulanza senza averla mai toccata; pertanto non avrebbe potuto fare nulla a quell’altra ragazza, perché più brutta». Parole riprese anche dall’avvocato Giovanni Scudellari, costituitosi parte civile per conto della vittima. Ha bollato il fatto come «una brutta vicenda dove l’arroganza e la prepotenza la fanno da padrone».

Il trauma

Per la giovane volontaria il trauma si ripercuote tutt’oggi. Lo ha spiegato in aula la psicologa alla quale si è rivolta il mese successivo ai fatti. «Alterazioni, stress e ansie ogni volta che si trova in presenza di persone di sesso maschile». Questa la valutazione del suo stato attuale, ricondotto dalla paziente all’episodio «vissuto come prevaricazione da parte del proprio superiore». Uno choc per il quale ora la giovane è costretta ad assumere anche psicofarmaci.

La difesa

L’imputato, difeso dall’avvocato Riccarda Argelli, si è sempre dichiarato innocente, attribuendo l’origine delle accuse nei suoi confronti all’«opera di diffamazione da parte dei testi e della madre regista di una figlia giovane, preoccupata per il suo futuro». Una condanna – nella sua requisitoria – pure alla stampa, “colpevole” di avere riportato la notizia nei giorni successivi alla denuncia della vittima. Per il collegio penale composto dai giudici Cecilia Calandra, Federica Lipovscek e Cristiano Coiro, è stato sufficiente meno di un quarto d’ora di camera di consiglio per formulare la sentenza: condannato, con interdizione ai pubblici uffici per 5 anni e divieto perpetuo di ricoprire ruoli di tutela, oltre a provvisionali di 15mila euro per la vittima e 5mila per il «discredito arrecato all’Ausl», parte civile con l’avvocato Roberta Sama.

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