Lotta, Maenza entra nella Hall of Fame dello sport italiano

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“Pollicino” è diventato grande, lontano dalla “sua” lotta, anzi sarebbe meglio dire in lotta con la sua lotta, perché non risparmia critiche al mondo che lo accolse a braccia aperte nei primi anni ’80 e che dovette salutare a malincuore e con un legamento del ginocchio rotto alla vigilia di Atlanta 1996. Quindici anni di altissimo livello: due ori e un argento olimpici. La Romagna al potere e negli ultimi anni l’idea vincente, assieme al figlio: un centro di personal trainer, frequentato ed esclusivo, di grande successo.

Ieri Vincenzo Maenza è entrato nella Hall of Fame dello sport italiano, premiato dal presidente del Coni, Giovanni Malagò: ha gioito, come è giusto che sia, ma con un pizzico (o qualcosa in più) di amarezza. «Si sono ricordati anche di me ma io non l’ho mandato a dire al presidente Malagò – racconta il lottatore romagnolo – ho vinto due ori e un argento ai Giochi Olimpici, ho dato 20 anni della mia vita allo sport italiano, ricevendo tanto, è vero, ma sono passati quasi 30 anni dalla mia ultima medaglia olimpica. Un po’ troppi, no? Mi sono passati davanti tanti miei colleghi. Secondo i dirigenti della Federazione, poi, avrei dovuto lavorare per loro e per fortuna non li ho ascoltati e mi sono messo in proprio. Purtroppo i nostri sono ancora sport minori, dove spesso si improvvisa e si spera che qualcosa succeda, che nasca il campione. Io ho una concezione diversa dello sport. Lavorare duramente sui giovani: cercarli, appassionarli, farli crescere. In Italia di bambini o ragazzini che si avvicinano alla lotta ne abbiamo. C’è tradizione, la disciplina ha fascino. Eppure in questo momento la lotta italiana è rappresentata da due atleti cubani naturalizzati e dietro c’è poco o niente. Ci vorrebbe un cambio di mentalità, di marcia e se anche arrivasse oggi si lavorerebbe per l’Olimpiade del 2028. Questo mi rende triste e mi ha allontanato dalla mia disciplina».

Una disciplina che gli ha regalato la gloria eterna del doppio titolo olimpico. «Ogni ricordo legato alle Olimpiadi è bello – prosegue Maenza – ma la prima immagine che mi si stampa nella mente quando penso ai Giochi è legata alla vittoria di Seul. La volevo tantissimo. Avevo già vinto a Los Angeles ma mancava il blocco dell’Est e per noi campioni olimpici la percezione era quella di un successo monco. A Seul mi sono ripresentato, c’erano tutti e ho rivinto. Lì mi sono sentito padrone del mondo, il migliore. Non c’erano dubbi. Dirò che ho ricordi dolcissimi anche di Barcellona dove a mio avviso ho fatto il massimo, anche se l’argento un po’ di amaro in bocca te lo lascia sempre. Il mio avversario è stato più bravo, ha vinto con merito e io gli ho fatto i complimenti».

Bei tempi di una lotta che adesso in Italia boccheggia. «I ragazzi si avvicinano a questo sport – conclude Maenza – ma purtroppo non hanno lo stresso spirito di sacrificio della mia generazione o di quelle precedenti. A fare lotta non si guadagna, o almeno non abbastanza per mettersi a posto per tutta la vita come negli altri sport. Si fa fatica, si devono affrontare allenamenti durissimi, viaggi lunghissimi. Le soddisfazioni, però, sono enormi e io gareggiavo per queste. O si ritrovano in fretta questi valori o alcune discipline, non credo la lotta, finiranno per sparire, almeno nel nostro paese».

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