Lorenza Pieri da Lugo all'America tra "Giardino dei mostri" e Premio Strega

LUGO. Due famiglie, i Biagini, contadini e butteri, e i Sanfilippi, membri della borghesia intellettuale romana, due classi sociali e due mondi distanti, si incontrano e si scontrano nei “miracolosi” anni Ottanta in un paese della Maremma toscana. La loro storia, ambientata in un’Italia in cambiamento, è la trama del libro "Il giardino dei mostri", scritto dell’autrice lughese Lorenza Pieri , candidata al Premio Strega. Nel romanzo proposto al prestigioso riconoscimento da Martina Testa, Pieri, che da diversi anni vive negli Stati Uniti, dove alterna scrittura di narrativa a quella giornalistica e drammaturgica, racconta le vicende di padri impegnati a conservare un’autorità sempre più precaria, madri che tentano di gestire gli equilibri affettivi, figli confusi e irrisolti. Un romanzo corale che vede al centro l’adolescente Annamaria, una 15enne che cerca a fatica il suo posto nel mondo, capace di opporre al generale smarrimento esistenziale una generosa vis comica. Ne parliamo con l’autrice.
Lorenza, il suo libro è ambientato in Toscana, dove lei ha trascorso infanzia e adolescenza dopo aver lasciato la Romagna. Quanto c’è di autobiografico nella storia?
«È una domanda che mi viene posta quasi sempre e alla quale mi piacerebbe rispondere con la precisione di un numero, una percentuale, perché la risposta è molto più vaga e imponderabile di quanto non sia in grado di dare. A volte vorrei rispondere “niente” altre “tutto”, e sarebbero valide entrambe le risposte perché niente di quello che ho messo nel romanzo è puro racconto di vita vissuta, eppure tutto, anche le cose più fantasiose, i personaggi più inventati, sono frutto della mia mente, della mia memoria, dei miei trascorsi emotivi, delle mie esperienze. Diciamo che nel "Giardino dei mostri" racconto la storia di un luogo in un’epoca in cui ci ho vissuto, più o meno quando avevo la stessa età di una delle protagoniste (Annamaria), per cui ho ben presente la realtà di cui parlo, ma la storia di Annamaria non coincide affatto con la mia, io non ero una ragazzina come lei, così come le storie che coinvolgono gli altri personaggi attorno a lei sono frutto di invenzione, pur pescando da situazioni e contesti realistici e che ho cercato di rendere nel modo più verosimile possibile. C’è un po’ di me in ognuno dei personaggi ma non sono nessuno di loro. Amo mescolare la realtà e l’invenzione per dare un senso alla mia storia all’interno della Storia con la S maiuscola. Alcuni dei personaggi del romanzo sono persone realmente esistite, come Niki de Saint Phalle, per la costruzione di questi personaggi ho dovuto ovviamente studiare molto, non potendomi permettere la libertà di inventare cose o fatti che li riguardassero, mentre per gli altri è stato più facile, purtroppo per loro sono in mia completa balìa. Mi piace che parte della risposta possa essere data da quello che dice Martina Testa nella lettera di candidatura del libro allo Strega: “Nasconde con eleganza il suo io dietro la fiction, ma le sue pagine sono piene della verità e del calore di chi certe esperienze e certi luoghi li ha vissuti”».
Perché ha scelto di ambientare la storia negli anni Ottanta, quelli dell’ottimismo e benessere, in apparenza lontani dai nostri tempi?
«La storia si ambienta in realtà tra gli anni Ottanta e i Novanta, anni di passaggio molto interessanti da raccontare dal punto di vista sociale e politico, anni che soprattutto per il luogo in cui si ambienta il romanzo (anche se non lo cito mai è Capalbio), sono stati incredibilmente ricchi di incontri molto particolari che sono stati forieri di cambiamenti. Incontri in un certo senso simbolici per quello che è diventata l’Italia negli anni a venire. Sono stati anni in cui si è tentato una sorta di esperimento che metteva l’ottimismo e l’edonismo a disposizione un po’ di tutti, per cui capitava che il politico si sedesse allo stesso tavolo con il buttero e facessero affari insieme, si vestissero allo stesso modo, tentassero una sorta di pacificazione allegra di ogni forma di lotta di classe. Erano anni in cui nel luogo che racconto c’erano gli Agnelli e i pastori sardi, l’intellighenzia di sinistra e i butteri, gli intellettuali e gli analfabeti, artiste americane che avevano visto tutto e ragazzine di campagna che non avevano visto niente… la loro interazione ha mutato del tutto la vita di questo paesino e in qualche modo è stata significativa anche per gli anni a venire. Mi interessava raccontare questi anni che ho vissuto all’epoca senza consapevolezza, senza accorgermi di nulla, riguardandoli con gli occhi distanti e più attenti, realizzando che avevo assistito, senza rendermene conto, a un momento unico e in un certo senso magico».
Lei vive negli Stati Uniti e scrive dell’Italia dall’America; è un modo per mantenere i legami con la sua terra d’origine? Torna qualche volta a Lugo?
«Scrivo dell’Italia dall’America solo da qualche anno, prima vivevo a Roma e il mio primo romanzo l’ho scritto in Italia. Il mio legame con l’Italia è ancora strettissimo e lo mantengo continuando quotidianamente a scrivere e a parlare nella mia lingua madre, un legame che non si può spezzare. A Lugo torno molto volentieri ma purtroppo sempre più di rado, ho perso mia nonna lo scorso anno e la sua casa è stata venduta, per cui adesso è più difficile trovare le occasioni per tornare. Ma è una città a cui sono da sempre molto legata: ogni volta che mi arriva un invito dalla Romagna faccio di tutto per partecipare».
Alcuni scrittori guardano con diffidenza i premi letterari, ma quando ci si trova a concorrere per uno così prestigioso, cambia la percezione?
«Devo dire che avendo lavorato per tanti anni in editoria sui libri degli altri, so benissimo quanto i premi siano utili per rendere i libri più visibili, per farne riconoscere il valore al pubblico che spesso naviga in un oceano di proposte tra le quali è difficile raccapezzarsi. Per questo personalmente non sono mai stata “contro” i premi. Paradossalmente più sono prestigiosi i premi italiani e più intorno a essi aleggia la diffidenza (non mi pare sia lo stesso per il Pulitzer, il Booker o il Nobel). È vero che ogni selezione porta in sé potenziali ingiustizie ed è difficile svincolarsi completamente da dinamiche legate ai poteri editoriali, ma tutto fa parte delle regole del gioco che io vorrei vivere con puro spirito di divertimento perché la competizione non è per niente nelle mie corde. Un premio prestigioso come lo Strega resta comunque una grande occasione per parlare dei bei romanzi che sono usciti nell’ultimo anno, in un Paese in cui si legge sempre meno, per cui lunga vita allo Strega e alla letteratura italiana».
In Italia l’editoria e ancor più le librerie stanno attraversando un momento difficilissimo: in America vivono la stessa crisi o c’è un’attenzione diversa?
«La crisi del libro è una crisi mondiale, legata al fatto che la lettura è una forma di intrattenimento sempre più aggredita da una grande quantità di concorrenti fortissimi. Ma i libri resistono e trovano ancora il loro spazio nella vita culturale di ogni Paese. Negli Stati Uniti il settore editoriale è ancora una vera e propria industria: per quanto i lettori siano in diminuzione un po’ dappertutto, i lettori di lingua inglese sono una vera e propria massa in confronto alla nicchia dei lettori italiani. Anche qua le librerie sono in difficoltà e hanno risentito dello strapotere di Amazon, e allo stesso modo diverse catene hanno chiuso, mentre i librai indipendenti stanno facendo quello che si fa un po’ ovunque: resistono. Le librerie rimangono luoghi di aggregazione, dove si fanno incontri, corsi, eventi. Certo qua c’è l’abitudine di pagare per assistere a un incontro, spesso per gli eventi con gli scrittori più famosi che lanciano il loro libro si deve prenotare e comprare il libro come biglietto di ingresso. Nessuno si scandalizza, anzi, spesso questi eventi sono sold-out. È uno strano Paese questo, non c’è un ministero della Cultura ma tutto quello che ruota attorno all’arte, alla musica, allo spettacolo, alla letteratura, rimane un business ancora molto fiorente, e le persone in generale sono ancora disposte a spendere per i consumi culturali».

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