Lo scrittore Paolo Nori alle Città Visibili: l'intervista

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Al festival Le città visibili, in corso a Rimini, anche un finalista del Premio Campiello. È lo scrittore parmigiano Paolo Nori, autore dallo stile e dall’eloquio inconfondibili, con i suoi flussi di coscienza all’emiliana. Al Campiello ci è arrivato con Sanguina ancora (Mondadori), romanzo in cui ritorna alla sua grande passione per la Russia e i letterati russi. In questo caso Dostoevskij (il libro è una biografia romanzata), ma si parla anche di Gogol’, Puškin, Tolstoj e tanto altro.

In coppia con il giovane attore Nicola Borghesi, Nori ha di recente ideato lo spettacolo Se mi dicono di vestirmi da italiano non so come vestirmi (domani, giovedì 9, al Teatro degli Atti, ore 21.30).

Nori, il suo è un affronto… Lei con la sua passione viscerale per la Russia e per la sua letteratura ci viene a parlare ora di cosa vuol dire essere italiani? Come le è venuto in mente di farci addirittura uno spettacolo teatrale?

«Io, la mia passione per la Russia, l’ho come ereditata da un signore che si chiamava Gaspare e che era nato nel 1915 a San Polo d’Enza, in provincia di Reggio Emilia, ed era italianissimo, e io, che sono nato a Parma nel 1963, ho l’impressione di essere italianissimo anch’io, solo che sono un italianissimo di Parma, e un italianissimo di Parma, secondo me, è molto diverso da un italianissimo di Bologna, come Nicola Borghesi, che è quello con cui ho fatto lo spettacolo, e diversissimo da un italianissimo di Rimini, per dire, o di Forlì o di Cesenatico. Tra l’altro, la mia passione per la Russia, mi vien da dire, è come se si riflettesse nella passione che i russi hanno per l’Italia, come Dostoevskij, che, quindicenne, scrive da Pietroburgo una lettera al padre e gli dice che il tempo, a Pietroburgo, è «meraviglioso, italiano»: per lui, che non è ancora mai stato in Italia, meraviglioso è sinonimo di italiano, e così per molti russi, quindi la passione per la Russia mi sembra non tolga italianità, ma ne aggiunga, semmai».

Secondo affronto: nella patria dei campanili, lei, cantore emiliano, cala in Romagna così, senza alcun ritegno? Dimostri almeno di conoscerci un po’, noi romagnoli… Cos’è per lei la Romagna?

«La Romagna per me è una terra di poeti: Raffaello Baldini, Nino Pedretti e Mariangela Gualtieri quelli che ho frequentato di più; ci sono parole che mi piacciono moltissimo, del romagnolo, come burdel e pataca, ma, devo dire, la conosco molto poco, la Romagna, come tutti i posti al mondo che non siano l’Emilia o la Russia».

In effetti lei non lesina di “appropriarsi” del “nostro” Raffaello Baldini. Perché le piace così tanto?

«Raffaello Baldini per me è come Puškin, come Gogol’: in Baldini, e anche nel suo amico Nino Pedretti, c’è tutto, c’è un’allegria e un’amarezza che, se posso permettermi, non sono vostre, sono di tutti. Quando penso a Baldini (e a Pedretti) mi viene in mente quel che Nabokov dice di Gogol’, che quello che scrive “dà la sensazione di qualcosa di ridicolo e di stellare al tempo stesso – e piace richiamare alla mente che la differenza tra il lato comico delle cose e il loro lato cosmico dipende da una sibilante”».

Visto che viene a Rimini, ha appena aperto il Museo Fellini. Ci deve per forza dire qualcosa su Fellini...

«Di Federico Fellini mi piacciono molto i film narrativi, Lo sceicco bianco, La strada, Roma; quando diventa metafisico, quando lavora, come dicono i critici, en abîme, come in o nell’ Intervista, o nella Città delle donne, ho l’impressione di non essere abbastanza intelligente per capire Fellini, mi fa sentire in colpa».

È stato finalista al Campiello con “Sanguina ancora”, romanzo biografia su Dostoevskij. Cosa è cambiato per lei dopo la partecipazione al Premio?

«Sono molto contento, del Campiello, anche se sono arrivato terzo e ho preso pochi voti. Da qualche anno cerco di allargare il numero dei miei lettori. I risultati che sta ottenendo Sanguina ancora, Campiello compreso, mi sembra mi dicano che sono sulla buona strada. Il responso della giuria mi sembra mi dica che ho ancora tanta strada da fare, e che devo scrivere dei libri ancora più belli e ancora più leggibili, se voglio che mi leggano più persone delle tante che già mi leggono adesso».

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