“Mod generations” di Antonio Bacciocchi rinasce per raccontare la lunga storia di una sottocultura ribelle, che negli anni ’80 si accampava anche sulle spiagge di Rimini. Pubblicato nel 2009, è di nuovo nelle librerie con la riedizione di Interno4 Edizioni.
Antonio Bacciocchi, classe 1961, in arte “Tony Face”, è uno degli autori di spicco della letteratura musicale italiana, oltre a essere un famoso blogger e collaboratore di diverse riviste. Ma Bacciocchi è noto soprattutto per la sua carriera di batterista: ha suonato in una ventina di gruppi, incidendo una cinquantina di dischi, ha suonato in tutta Europa e oltreoceano, aprendo gli show di star come i Clash, Iggy and the Stooges, Johnny Thunders, Siouxsie, Manu Chao e tanti altri. È anche dj e produttore discografico.
Bacciocchi, come nasce “Mod generations”?
«È una ristampa del mio libro del 2009 andato esaurito, e un libro esaurito è una grande festa al giorno d’oggi. È nato dall’esigenza di una “colonna sonora” alla sottocultura mod», quella fatta di scooter cromati, look ricercato e capelli “new french line”. Ma soprattutto di tanta musica: Who, Jam, Paul Weller, e poi il modern jazz, il rhythm and blues, lo ska…».
Che cosa significa “mod”?
«Il termine mod deriva da “modernista”. È un movimento che nasce a fine anni ’50, in Inghilterra, quando i modernisti si separano dai tradizionalisti nell’ascolto del jazz. I mod ascoltavano il nuovo jazz, quello americano, mentre i tradizionalisti rimanevano al jazz “classico” degli anni ’30 e ’40. Generalizzando, mod è ciò che guarda a tutte le forme derivate dal jazz e dalla musica nera: per esempio, lo ska nasce dall’incrocio tra swing e un genere minore giamaicano; il rhythm and blues è a sua volta una specie di evoluzione del jazz, ma fatta per ballare».
La novità del mod è il ballo.
«Prima il jazz si ascoltava come la musica classica, stando seduti, in rigoroso silenzio. L’arrivo del rhythm and blues cambiò le cose, si cominciò a ballare… Gli elementi del modern jazz si sono evoluti, e hanno portano al movimento mod».
Quali sono le novità della riedizione di “Mod generations”?
«Intanto una serie di aggiornamenti che ho fatto dal 2009 a oggi. C’è poi una particolarità molto curiosa, soprattutto per i giovani: nel ’79-’80 io ero mod ante litteram, e siccome non c’era né internet né un’editoria musicale forte, io cominciai a raccogliere in un quaderno tutti gli articoli che avevano a che fare col mod. Ho trovato questo quaderno nei famosi “bauli polverosi”, e Interno4 lo ha scansionato. È una Wikipedia del mod, io annotavo lì cose che non erano scritte da nessuna parte…».
Lei è considerato il “padre” dei mod italiani. Come si è avvicinato alla cultura mod?
«Io sono nato musicalmente con i Beatles e gli Who, mi sono sempre ispirato a loro. Alla fine degli anni ’70, quando in Italia ancora non si sapeva cosa fosse il mod, lessi su un giornale inglese la recensione di un gruppo: erano i Jam di Paul Weller».
Il giovane Bacciocchi scoprì che i Jam avevano la forza del punk, ma anche le melodie dei Beatles.
«Ordinai un disco dei Jam. Nella copertina c’erano ragazzi della mia età. Erano persone contemporanee. Seguendo i Jam ho capito il mod e che in Inghilterra ascoltavano la musica che piaceva anche a me. Poi andai a Londra un po’ di volte, e da lì fu più facile. Riportavo a casa valigie piene di dischi. Andavo a Londra con uno zainetto con un paio di vestiti, e due valige enormi per comprare una marea di dischi».
Un processo di ricerca.
«All’inizio è stato pionieristico ma anche frustrante, spesso non trovavo niente, nessuno voleva dirmi di cosa si trattasse. Ma è stata anche una ricerca certosina, ogni giorno cercare gruppi, ordinare dischi, spedire sterline in busta chiusa… c’era un’attesa spasmodica del postino».
Quando la cultura mod arriva in Italia, cosa succede a Rimini?
«In Inghilterra, l’estetica e l’etica del mod erano legate ai raduni in spiaggia. I mod si ritrovavano nelle tristi, fredde spiagge inglesi. Si pensò di fare dei raduni simili in Italia».
Nella primavera dell’82, Bacciocchi si esibì con i Not Moving a Gabicce Mare.
«Da lì mi venne l’idea di organizzare una serata mod a settembre. Centinaia di persone andarono a quel raduno, a Gabicce, perché la Riviera rispondeva all’estetica mod sulla spiaggia».
Perché Rimini è così importante per i modernisti?
«Rimini è diventata la capitale dei raduni. C’era una capacità di accoglienza enorme, c’erano alberghi a buon mercato che ben si adattavano alle tasche dei giovanissimi, potevi addirittura dormire in pensione con pochi soldi. Noi spesso dormivamo in spiaggia col sacco a pelo, ancora si poteva. Poi c’erano molti locali e pub che potevano ospitare il preserata. C’era il Rose&Crown, con le fattezze inglesi, poi c’era il Bandiera Gialla, e soprattutto lo Slego a Viserba. Lo Slego è stato uno dei templi della musica italiana, ha ospitato i primi gruppi new wave e punk, era molto bello, accattivante, ha sempre ospitato molto volentieri le serate mod. Rimini è diventato il fulcro. Non di rado qualcuno di noi decideva di andare a Rimini anche al di fuori dei raduni. C’era un negozio di dischi, la Dimar, che era un magazzino fantastico in cui trovavi cose stupende. Rimini era un paradiso: avevi il preserata mod, la sera mangiavi al Rose&Crown, il pomeriggio andavi alla Dimar. Era fantastico. Rimini poteva radunare sia Milano che Roma, era facile, c’è il mare, l’accoglienza, si mangia bene».
C’è un messaggio che vorrebbe lasciare a chi leggerà la riedizione di “Mod generations”?
«Il fatto di continuare a cercare, approfondire, scoprire notizie… Sopratutto adesso che tutto è immediato, c’è Spotify, c’è Amazon… Il mio libro vuole istillare uno spirito di ricerca».
Potrebbe consigliare un disco a chi vuole avvicinarsi al mod?
«Snap dei Jam è l’album da cui partire. Da lì puoi andare indietro fino agli Who, al rhythm and blues, al soul, oppure avanti fino agli Artic Monkeys e agli Oasis».