Letterina di Natale

Cultura

Spero di non scandalizzare nessuno scrivendo – a proposito delle norme che regoleranno le prossime festività natalizie – che ho ricavato l’impressione che le destre piangano di più la morte di Babbo Natale che quella delle migliaia di persone “comuni” che morirebbero se quelle restrizioni non ci fossero. Quasi avessero letto il nuovo Dpcm del premier Conte come il necrologio di un modello economico planetario identificato con Babbo Natale. Niente cenoni, niente gite in montagna, acquisti morigerati, cuore contrito e portafogli a riposo (un bel tesoretto di risparmi non ancora spesi…).
Ma le notizie sono confuse e contraddittorie, non è certo che Babbo Natale sia davvero morto, forse è solo ferito. E questa incertezza suscita in noi sentimenti ambivalenti, peana, autocritica ed esultanza. Persino ilarità. Riguardando in tv lo spelacchiato albero di Natale al Rockfeller Center di New York che tutti avevano deriso, tanto era misero e cadente e che oggi appare così sovraccarico di palle colorate da diventare il simbolo supremo del trumpismo – cioè di come si possa nascondere la realtà con milioni di fake news, “palle”, appunto –, viene da sogghignare. Anche noi a Rimini sembra che abbiamo voluto consolare i nostri concittadini dei mancati cenoni natalizi accendendo addirittura due grandi ceri – uno su ogni piazza – e spargendo lacrime luminose nell’invaso del Ponte di Tiberio: quanto siano importanti scadenze rituali come il Natale e il Capodanno in questa era di passaggio lo abbiamo ben capito non solo dalle reazioni scomposte di questi giorni, ma anche dal bisogno di “testimonial d’eccellenza” che, finalmente convertiti, elogiano la frugalità del Natale in casa.
Ho ritrovato una mia “letterina di Natale” di trent’anni fa che voglio farvi leggere: «Caro Babbo Natale, cosa abbiamo noi da spartire col tuo abete? Noi siamo il paese del pino marittimo, dell’olivo, del leccio, dell’olmo, del noce e del fico. Hai stravolto la nostra cultura, hai imposto la tua neve finta persino agli Emirati Arabi. Il tuo appetito di nuovi mercati è insaziabile e vedo brillare i tuoi occhi al pensiero di quando potrai trasformare i milioni di bambini indiani, oggi stremati dalla fame e dalle malattie, in altrettanti piccoli consumatori dei tuoi inutili giocattoli. Ma il tuo vero “disegno”, il tuo terrificante progetto che già sembra a buon punto, è quello di rendere permanente l’orgia di consumo che, per il momento, sei riuscito a iniettare nella “nostra” tradizione di Natale. E già le tue fabbriche lavorano a ritmo serrato per la Pasqua, le colombe seguono i panettoni senza soluzione di continuità, le uova di cioccolata e colla rimpiazzano i tuoi San Nicola di marzapane. E poi eccoti inventare, per una più rapida assuefazione, i San Valentino, i Carnevali, le Feste del Papà e della Mamma, gli onomastici, i compleanni, le feste di laurea, di matrimonio, di divorzio; neanche la Festa dei morti ha potuto sottrarsi al tuo dominio. La trama del tuo disegno è ormai capillare: non si sottraggono le migliaia di aziende al puntuale pagamento della tangente che ti è dovuta, al camuffamento della corruzione sotto forma di regali e pacchi dono: una giostra di pacchi che gira, salda conti, paga favori, li induce».
Mi vergogno un po’ di questa chilometrica auto citazione che apparve su questo stesso giornale (che si chiamava però Gazzetta invece di Corriere) il 13 dicembre 1990: «di un moralismo schifoso» come mi insultò qualcuno all’epoca, quando ancora non esistevano gli haters sui social. Chi poteva prevedere che un virus, non una rivoluzione culturale, avrebbe avuto il merito di ferire a morte il disegno imperialistico del consumismo globalizzato?
Hai visto cos’hai combinato col tuo Dpcm, caro presidente Conte? Hai fatto inciampare la slitta che portava i regali del Mes , Babbo Natale è rovinosamente caduto giù per i coppi e chissà se si salverà. Era destino. Il Coronavirus ci aveva già ricordato, con la prima ondata, quanto marcio ci fosse in Danimarca e quanti sforzi dovremo (o dovremmo) fare per reinventare la nostra economia bastonata da una pandemia che si annuncia ormai planetaria e perenne nelle sue probabili mutazioni a venire. I nostri figli vivranno di vaccini più che di Nutella.
Nessuno ricorda come, dopo ogni frenetica aspettativa, ci aspetta, con un ghigno beffardo, la frustrazione? I dissapori hanno sovente la meglio sui fantasticati sapori della festa. «Si aspetta quasi con sollievo – mi telefonava 30 anni fa Maddalena Fellini, proprio la vigilia di Natale – quell’Epifania che tutte le feste si porta via».
Mentre scrivo ho sotto gli occhi un regalo natalizio del mio amico Paolo Fabbri che avevo archiviato da qualche parte senza pormi tante domande. Me ne sono ricordato dopo l’invito del Papa a riscoprire la tradizione del presepio. È un piccolo manufatto inquietante, fatto con del filo spinato e 34 chiodi conficcati su un ceppo di legno. I chiodi sono rivestiti con minuscoli ritagli di lattine che sarebbe interessante datare, una folla di pastori, contadini e angeli che si affrettano verso un microscopico Gesù bambino steso su una manciata di fil di ferro. Il ceppo ha una etichetta di carta cerata con un nome che non riesco a decifrare. Non mi stupirebbe che fosse stato costruito durante la terribile segregazione ad Auschwitz; o forse più tardi, da un sopravvissuto. Che riappaia ora, durante questa modesta segregazione del Natale 2020, ha tutto l’aspetto di un segno.

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