Le recensione: l’Orfeo di Ottavio Dantone

A leggerne sui libri di storia, o anche ad ascoltarne alcune vecchie incisioni, la prima opera, o meglio “favola in musica” di Claudio Monteverdi potrebbe sembrare un pezzo da museo, irrimediabilmente da ascoltare con la pazienza e il rispetto che si devono a un reperto prezioso, quanto noioso… E invece no! Ha ragione Ottavio Dantone quando dice che fare filologia non è semplicemente “replicare ciò che si faceva un tempo”, ma è piuttosto «recuperare un linguaggio capace di trasmettere gli stessi affetti che si vivevano al tempo della composizione».
Gli stessi affetti, sentimenti, passioni. La stessa tensione emotiva, lo stesso coinvolgimento. Ed è proprio quel linguaggio che Dantone è riuscito pienamente a ricreare sul palcoscenico del teatro Alighieri, dirigendo appunto L’Orfeo di Monteverdi, lo scorso fine settimana per la Stagione d’opera del teatro ravennate. Il direttore sul podio dell’orchestra di cui è a capo da oltre vent’anni, Accademia Bizantina, ha saputo imprimere all’antico dramma pastorale una forza e un dinamismo espressivi tali da catturare il pubblico alla stregua di un attualissimo musical. E viene da pensare agli “Invaghiti”, coloro che alla corte mantovana dei Gonzaga, agli albori del Seicento, incaricarono Monteverdi insieme a Striggio, per il testo: non certo incartapecoriti “accademici”, ma giovani intellettuali pronti a cogliere le mode del momento (la novità arrivava da Firenze) e a sperimentare un teatro nuovo e nuovi linguaggi. Quasi un teatro “da camera”, dove tutto è ancora possibile perché ancora libero dalle convenzioni che presto avrebbero ingessato il genere: tutto questo si respirava nell’Orfeo all’Alighieri.
Si respirava nel dipanarsi della partitura, fin dalla Toccata d’apertura, nel ritmo incalzante, nella trama strumentale, nei madrigalismi che “vestono” il testo e gli danno sostanza, quindi nelle voci: nei pezzi “chiusi”, ma soprattutto nei lunghi e tesi archi melodici di un recitar cantando (ma si potrebbe meglio dire cantar recitando) che è il cuore “rappresentativo” dell’opera stessa – basti pensare allo struggente racconto della morte di Euridice intonato da Alice Grasso nelle vesti della Messaggera, alla cupa resistenza di Caronte/Mirco Palazzi, poi alle voci “attoriali” di tutto il cast (tra gli altri Eleonora Pace, Daniela Pini, Margherita Maria Sala, Federico Sacchi) e in particolare alla straordinaria evoluzione del protagonista, eccellente Giovanni Sala nel ruolo di Orfeo.
E si respirava nell’intera messa in scena firmata regia, scene e costumi da Pier Luigi Pizzi, con le luci di Massimo Gasparon e le coreografie di Gino Potente: orchestra e direttore al cembalo sono essi stessi scena, sul palcoscenico dominato dalla grande porta da cui tutto arriva, e in cui tutto finirà con l’uscita di Orfeo, sospeso a una sorte incerta; mentre lo spazio d’azione si sviluppa nel percorso costruito attorno alla buca, ovvero a quell’aldilà che inghiottirà per sempre Euridice. Nel contrasto di bianco e nero (dei costumi, delle luci, delle scene) che segna il confine tra vita e morte, tra gioia e dolore, si muovono i protagonisti e il coro – ottima la prova del Coro Cremona Antiqua preparato da Antonio Greco – affacciandosi fin nel cuore della platea, in una contiguità con il pubblico che sembra ricreare l’antico, e modernissimo, spirito dell’accademia, la condivisione piena della “favola”, il pulsare comune delle emozioni.
Susanna Venturi

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