Le cronache riminesi tra 800 e 900: Petrolini a teatro

Cultura

Gennaio 1915. Freddo polare: neve di giorno, gelo di notte. L’Europa si è impelagata in una snervante guerra di posizione; l’Italia per il momento ne è fuori, ma c’è già chi vorrebbe farcela entrare. Tra costoro, tuttavia, non c’è ancora pieno accordo sulla scelta degli alleati: molti vorrebbero scendere in guerra al fianco della Francia e dell’Inghilterra; qualcuno preferirebbe unirsi all’Austria e alla Germania.
A Rimini Il Giornale del popolo, settimanale repubblicano, non ha dubbi: allineato su posizioni antitedesche, si è già fatto promotore di un Fascio di azione rivoluzionaria e il 13 gennaio 1915 lancia un appello agli interventisti perché diano la propria adesione presso la sede di via XXII Giugno.
Il clima che aleggia in città è teso e le divergenze tra le fazioni non si limitano solo alle parole. Dell’incendio dell’Hotel Hungaria, scoppiato alle tre del mattino di martedì 5 gennaio 1915, si mormora di attentato politico.
A insinuare tale ipotesi è L’Ausa del 6 gennaio che nel riferire l’accaduto parla di «certi rancori» verso l’albergo, essendo d’estate «l’abituale ritrovo di molti cittadini dell’Impero Austro-Ungarico». Quelle fiamme, di origine dolosa – ma che non avranno mai una paternità certa – contribuiscono a invelenire il dibattito cittadino e a suscitare tra la popolazione una sorta di caccia alle spie tedesche, che orienterà non poche teste calde a prendersela con alcuni “pacifici” religiosi e soprattutto con i proprietari della fabbrica della birra Spiess, colpevoli di essere svizzeri di etnia tedesca.


A teatro, Petrolini scalda il morale
Intanto, in attesa di trascorrere le giornate in trincea, ci si accontenta di passare qualche ora serale a teatro. A scaldare il morale dei riminesi in quel rigido gennaio ci pensa Ettore Petrolini (1884-1936): al Politeama di via Gambalunga propone due rappresentazioni straordinarie.
Petrolini, romano trentunenne, è l’attore del varietà più apprezzato del momento, un vero mattatore della scena, capace di passare dalle espressioni drammatiche a quelle comiche e satiriche con estrema naturalezza e con una gamma di tonalità molto variegata. L’estrazione popolare romanesca, che inserisce nella gestualità e nella loquela, aggiunge all’estro del personaggio una carica di simpatia che richiama l’antica tradizione dei comici dell’arte.
Dopo aver fatto le prime esperienze in età giovanile presso circhi equestri e compagnie di bassa categoria, Petrolini approda al successo come divo d’avanspettacolo nel 1907, in seguito ad una fortunata tournée nell’America Latina. Il suo repertorio di «scemenzuole» oscilla tra il caricaturale e il grottesco. Vero acrobata della battuta, l’artista non si accontenta di far ridere il pubblico: lo provoca, lo punzecchia, lo stuzzica. Fuori copione improvvisa dialoghi con gli spettatori e in questa forma di “teatro libero” è insuperabile: si scatena, diventa spavaldo, aggressivo, dissacrante. Perfettamente a suo agio.
Al Politeama riminese Petrolini presenta scherzi, parodie, maschere, stornelli, filastrocche strampalate e battute estemporanee. Il tutto condito da smorfie e lazzi. Molto applauditi i suoi dialoghi demenziali. Quelli, per esempio, del tipo dei “due sordi”: «Vai a pescare? – No, vado a pescare. – Ah, credevo che tu andassi a pescare. – No, no, vado a pescare».
Il Giornale del popolo è entusiasta dell’attore, lo considera «il re della macchietta». Il Corriere riminese il 20 gennaio 1915 paragona la creatività di Petrolini all’«arte geniale e festosa» di Scarpetta, Maldacea e Peppino Villani. «Un artista – scrive – nel più alto significato della parola… le sue saporitissime macchiette sono vere creazioni geniali».
Per alcuni «bojate» surreali
Ma il mondo è bello perché è vario. Non tutti gradiscono quel genere di «bojate», troppo “surreali” per quei tempi. Qualcuno, pur riconoscendo a Petrolini il dono della comunicativa, trova la sua “arte” banale e, senza prosopopea ma con molta schiettezza, azzarda il lapidario giudizio: «Tot patachedi!». Di rimbalzo altri, più sottili e cervellotici, concedono al «guitto» solo «il coraggio di essere idiota».

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