Le camicie nere tra randellate e la caccia alle “case chiuse”

L’articolo della nostra settimanale rubrica entra nel campo minato della tematica “sentimentale” degli anni Venti. Chiariamo subito, tuttavia, che la vicenda che ci apprestiamo ad esporre non ha nulla a che fare con gli appassionati “tormenti amorosi” illustrati da Gustave Flaubert, anzi al grande maestro del realismo francese chiediamo addirittura venia per certi accostamenti del tutto arbitrari. L’episodio, che ci consente di confezionare il “pezzo”, si verifica domenica 21 maggio 1922 a margine della commemorazione – a un anno dalla morte – di Luigi Platania, «mutilato e decorato di guerra nonché fondatore del fascio riminese». Detto questo procediamo con ordine partendo dal mattino di quella giornata, tenendo anche presente che siamo in uno dei momenti più turbolenti della nostra storia, in piena strategia della tensione.

Alle 9 e 45, con un quarto d’ora di ritardo, l’onorevole Aldo Oviglio inizia l’orazione solenne in memoria del «martire». Il Politeama Riminese, dove si svolge la celebrazione, è pieno zeppo di “camerati”; nutrita è la rappresentanza dello squadrismo emiliano-romagnolo. Sul palco, insieme con il relatore siedono i parlamentari Grandi e Gay e i membri del Comitato per le onoranze a Platania: Cosimo Maria Pugliesi, presidente e autorevole portavoce del fascio locale, Mario Bonini, avvocato e capogruppo del partito popolare in Consiglio comunale e don Domenico Garattoni, qualificato esponente della cultura cattolica, già direttore del settimanale diocesano L’Ausa. Fuori dal teatro una composita galassia di “camicie nere” bivacca in religioso silenzio e dai loro volti – riferiscono le cronache – traspare tanta «dignitosa compostezza».

Terminata la commemorazione, si forma il corteo che ordinatamente percorre via Gambalunga, corso d’Augusto, piazza Giulio Cesare, via Patara (oggi IV Novembre ) per confluire sul piazzale antistante la stazione ferroviaria. Qui, alle 11 e trenta, nel luogo dove Platania, la sera del 19 maggio 1921, fu assassinato da tre colpi di pistola, è scoperta una lapide a perenne ricordo della vile aggressione.

Sciolto il corteo, non tutti se la sentono di rompere definitivamente le righe e di abbandonare la città. Rimini, moderno centro turistico, è un luogo ospitale e stuzzicante; non offre solo bagni di mare: ha monumenti, opere d'arte, caffè, osterie e tante e ghiotte opportunità. E così, nel primo pomeriggio – narrano Germinal e La Riscossa rispettivamente il 27 maggio e il 3 giugno –, dopo un frugale rancio consumato al sacco, questi “turisti della commemorazione”, «si sparpagliarono per la città». Ma invece di dedicarsi alla cultura o allo shopping, alcuni si scatenavano a distribuire salutari “randellate” a «pacifici cittadini rei di non pensarla come loro», altri, molto più numerosi e rampanti, andavano a nobilitare il focoso patriottismo negli accoglienti bordelli di via Clodia e di via Castelfidardo. Due stili diversi, ma ugualmente “virili” per concludere, da “camerati”, la civile «adunata funebre».

I lupanari di quei due famigerati rioni, tuttavia, non erano preparati ad accogliere tanti frettolosi clienti: una volta riempiti i saloni d’attesa, le maîtresse erano costrette a chiudere le porte delle loro boutique e a mettere in vista il cartello del «tutto esaurito». Il che, naturalmente, impazientiva di brutto i ritardatari non propensi ad aspettare fuori il proprio turno. Da qui la furibonda corsa per le strade della città alla ricerca degli ambienti clandestini per stemperare i bellicosi bollori. Un via vai scomposto e chiassoso che metteva paura a molti riminesi inducendoli a serrare ben bene il catenaccio delle proprie abitazioni.

La testimonianza di questo frenetico vagabondare ce la fornisce il settimanale diocesano L’Ausa del 27 maggio 1922. Dalle sue colonne veniamo a sapere che una squadra di “camicie nere” «con le solite arie da eroi», mentre si stava prodigando nell’affannosa caccia al postribolo, brancolando senza bussola nei viottoli della Castellaccia, s’imbatteva – manco a farlo apposta – in «un giovane del Circolo cattolico» e proprio da lui pretendevano di sapere «ove fossero le case di tolleranza». Il malcapitato, stando sempre al resoconto del settimanale che lo cita con le iniziali di C. R., pur essendo del posto, non seppe dare risposta. Anzi, stando alla cronaca del periodico, l’indiscreta domanda gli tinse di rosso-sovversivo il volto; la qual cosa veniva ritenuta una grave provocazione dalla combriccola che iniziava a deriderlo, a insultarlo e a strattonarlo. Fortunatamente, a risolvere il brutto pasticcio che si era venuto a creare, provvedeva un cortese passante che, senza alcun imbarazzo, non solo forniva agli “squadristi” una dettagliata mappa di tutte le “case” regolari e irregolari di Rimini, ma dava di ognuna anche dettagliate referenze: prezzi, “specialità” e piatti forti del giorno. A questo punto – ed è sempre L’Ausa che racconta – al canto di Allarmi siam fascisti e di corsa «il gruppo, con relativo gagliardetto in testa, si avviava a destinazione».

Quella domenica pomeriggio, possiamo ben dirlo, le numerose “case chiuse” di Rimini, fortunatamente “aperte”, evitarono seri guai alla città. Da qui anche la convinzione che se la violenza in quel periodo era la levatrice della storia, il bordello ne era uno degli antidoti.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui